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e il senso dei due ultimi versi conferma che la lezione vera è questa; ma il popolo sostituì subito patria a gloria.

La Donna Caritea fu data per la prima volta al Teatro della Fenice a Venezia il 21 febbraio 1826, e allora forse la intese Attilio Bandiera, non ancora ventenne. Vedi anche le memorie di Federico Comandini, Cospirazioni di Romagna e Bologna, pubblicate e annotate dal figlio Alfredo, Bologna, 1899, a pag. 390, un articolo di Fulvio Cantoni nel Resto del Carlino, di Bologna, del 20 dicembre 1911 e il bel volume di Riccardo Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria (Milano, Cogliati, 1909).

Qualcosa di simile seguiva otto anni dopo. Il 7 dicembre 1852, saliva sul patibolo di Belfiore, insieme a Tazzoli e Poma, Angelo Scarsellini, di Legnago, di anni 30, che la sentenza austriaca per dispregio qualificò macellaio, ma che era giovine agiato e colto, figlio di un pretore, anima serena ed entusiasta di patriota, il quale, a chi lo aveva danneggiato nel processo con le sue deposizioni imprudenti, mandò il suo perdono esortandolo a morire da italiano, e per suo conto, attendeva serenamente nel carcere il carnefice, cantando l’aria del Marin Faliero: Il palco è a noi trionfo (Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, vol. I, Milano, 1905, pag. 317). Quest’aria — a quei tempi popolarissima e non senza ragione — era del Marino Faliero, libretto di Giovanni Emanuele Bidera, musica del Donizetti (rappresentata per la prima volta a Parigi, al Teatro Italiano, il 12 marzo 1835) e le parole erano, nel testo originale, le seguenti:

               Il palco è a noi trionfo
                    Ove ascendiam ridenti,
                    Ma il sangue dei valenti
                    Perduto non sarà.
               Avrem seguaci a noi
                    Più fortunati eroi;
                    Ma s’anche avverso ed empio
                    Il fato lor sarà,
                    Avran da noi l’esempio
                    Come a morir si va!

È la cavatina di Israele Bertucci, promotore della congiurai nell’a. III, sc. 7. Questi versi, non brutti, già popolarissimi — li