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nell’idea morale dell'arte xxix

avevano già gridato alto, e che in Italia parecchi valorosi amici suoi, come l’Hermes Visconti, il Berchet, il Pellico, cominciavano ad accogliere e a divulgare. Ad Alessandro Manzoni dispiaceva che questo principio andasse sotto il nome di Romanticismo, parola, a suo gusto, antipatica e piena di equivoci. A ogni modo, il romanticismo esprimeva per lui un movimento serio e salutare, a patto che si dissipassero le fantasie paurose e bizzarre di cui l’avevano circondato, e cessassero d’essere materia sua costante certi vani pettegolezzi di scuola; a patto infine che la disputa non si fermasse alle tre unità classiche e alla mitologia, anzi non si fermasse alla pura forma letteraria.

Discorrendone col marchese Cesare D’Azeglio nel 1823, il Manzoni esprime tutta la sua viva compiacenza perchè le nuove idee si diffondevano non solo ai diversi modi di poesia, ma occupavano di mano in mano tutte le teorie dell’estetica.1 Era dunque un pieno e universale rinnovamento dell’arte quello che egli aveva concepito e domandava e aspettava, come la unica razionale conseguenza del moto romantico.

Gli intendimenti del Manzoni appaiono con forma anche più viva dalle lettere che egli scrisse al Fauriel tra il 1807 e il 1823, in quello che fu veramente il periodo della sua grande creazione artistica, perchè vi compose gli Inni sacri, le Tragedie, il Romanzo; e perchè è anche rinchiusa in esso la sua conversione religiosa.


  1. Opere varie. Edizione Rechiedei, pag. 796.