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MATTACCINI

i

Mandami, ser Apollo, otta catotta,
quel tuo garzon con l’arco e coi bolzoni,
per batter di Vetralla i torrioni,
ove il gufo ancor buio e nebbia imbotta.

Dalla gruccia l’ha sciolto una marmotta;
e chiamando assiuoli e cornacchioni,
riduce il suo sfasciume in bastioni,
per far contra pigmei nuova riotta.

Giá veggio in su’ ripari una ghiandaia
che grida all’arme, e i ragni e i pipistrelli
che stan coi grifi agli orli delle buche.

Ma se vien mona Berta e mona Baia,
non fia per sempre il giuoco degli uccelli
quel barbassoro delle fanfaluche?

Fruga tanto che sbuche.

E rimettilo in geti; e se dá crollo,
senza rimession tiragli il collo.

il

Il gufo, strofinandosi, ha giá rotta
la zucca; e ’n su la stanga spenzoloni,
per farsi formidabile a’ pincioni,
schiamazza e si dibatte e sbuffa e sbotta.

Arruota il becco, infoca gli occhi, aggrotta
le ciglia, arruffa il pelo, arma gli unghioni,
e raggruzzola paglie e fa covoni
incontr’al sole, onde ha la pelle incotta.

E giá l’Uccellatoio e l’Asinaia
in soccorso gli mandano i succhielli,
ch’impregnan le ventose per le nuche.

Giá per Secchia, mettendo Arno in grondaia,
versa spilli e zampilli e pispinelli.

E ricama le carte per l’acciuche.

O naccheri, o sambuche,
sparate; e tu, che l’hai di piume brollo,
va’, gli apri il capo, e cavane il midollo.