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basse avidità che bollivano sordamente in quell’organismo. Tant’anni di fredda giovinezza l’avevano depravata. E non aveva, in quel che faceva, neppur la scusa dei sensi!

La maternità fu per lei un peso insopportabile, un impiccio odioso. La piccola Giacinta rimase quasi dimenticata in campagna. Quando la sua mamma si rammentava di andare a vederla una o due volte l’anno, la bimba — dinanzi a quella persona quasi sconosciuta, vestita così diversamente dalla balia, con quel cappellino, e quelle piume, e quei nastri — si tirava indietro a testa bassa, imbroncita, guardandola sottecchi, succhiandosi il ditino; e faceva spallucce a ogni parola della mamma, della sua mammina vera, come le diceva la balia.

— Le vuoi bene alla tua mammina?

— È un’orsacchiotta, addirittura.

La signora Marulli stentava a capacitarsi che quell’orsacchiotta fosse sua figlia.

Dopo che dovette ritirarsela in casa, la trottolina di cinque anni, che le si raggirava tutto il giorno fra i piedi e spesso strillava per cose da nulla, le faceva perdere subito la pazienza:

— Ah!... Aveva le bizze?

E afferratala duramente per un braccino, la chiudeva in una stanzetta.

— Lì; impara a strillare e a rotolarti per terra!

Nemmeno Camilla, la serva di casa, voleva vedersela attorno, specialmente in cucina. Però con lei la bimba si rivoltava; le diceva: — Sciancata!

E un giorno, ricevuto dalla Camilla uno spintone sgarbato, le avventò la parolaccia del marito della balia, quando questi sgridava la moglie.

Camilla l’avrebbe pestata sotto i piedi. E non gliela perdonò mai.