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E andavo su e giù, tirando fantastici buffi di fumo dal sigaro spento.

— Miserabile! — continuavo — Tu carezzi desiderii, che non osi confessare nemmeno a te stesso. Già non sei più sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un’indegna azione!

E tornavo a passeggiare, stritolando fra l’indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.

Quelle parole mi avevano fatto arrossire quasi fossero state pronunziate da un’altra persona, da un amico severo, venerato per gli anni e per l’esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:

— Via! Tu esageri. Tradire la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere. Volessi pure, quella donna......

Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po’ per persuadermi che forse m’illudevo, un po’ per l’involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m’ero illuso.

Quella donna non sarebbe stata forte, lo indovinavo. Da che? Da cento lievi e quasi impercettibili indizi, che sarebbero sfuggiti a qualunque occhio meno interessato del mio.

— E dopo? — ripetevo con insistenza.

E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l’immagine della mia Jela avesse potuto offuscarsi un momento; indignato che la rassomiglianza fosse servita, mio malgrado, da incentivo per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.

— Che debolezza! Che vigliaccheria!

Oh, no! Volevo essere uomo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo; dovevo al culto della mia Jela questa riparazione sentimentale.

E andai a letto consolato.