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E tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo.

Eravamo andati a visitare l’antico casamento della Marza, poco distante. L’atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lì accanto, una volta dei frati Carmelitani, deviavano, a intervalli, la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo far da cicerone, dare schiarimenti, appagare la curiosità femminile destata da un sasso, da una grondaia, da un cespo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull’architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva.

— Quella bianca cupola in fondo, che stacca sul grigio della pianura?

— È della chiesa di Pachino.

— E quel colle con quel vasto e severo edificio in cima?

— Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari.

— E quello scoglio nero in mezzo al mare, poco lontano dalla spiaggia?

— L’isoletta dei Porri.

La giornata era splendidissima. Sole di primavera; aria profumata dagli odori particolari delle mèssi e delle erbe selvatiche in fiore.

Ma quel sole, quelle mèssi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un’altra giornata di maggio e una campagna più bella.

Jela, appoggiata al muro rustico di un pozzo su la spianata accanto all’aia, sorrideva ai piccioni domestici che beccavano i chicchi di orzo e di frumento lasciati cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava guardandola