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a starmi ad ascoltare benevolmente. Ecco, vengo sùbito a don Ciccio Curti.

Non dico: un bell’uomo, ma quasi. Figlio di contadini che lo avevano mandato a scuola dal «Domine» Speranza — allora si diceva così — avrebbe potuto prendere una professione; e si era arrestato a mezza via. Speziale, no! Agrimensore, no! Santo sacerdote servo di Dio, lo avrebbe voluto sua madre! Lui intanto non aveva fretta; aspettava la vocazione.... Quella di fannullone l’aveva già, come gli diceva suo padre. Le lavate però di capo del buon uomo a quel figlio unico non approdavano a niente. Gli parve, per ciò, di aver toccato il cielo con un dito quando lo seppe allogato come scritturale presso il Notaio «Brà-brà», così chiamato perchè aveva il vezzo di fare continuamente «brà-brà» con le labbra, scrivendo o stando a sentire.

Il padre morì senza accorgersi di una specie di malattia di suo figlio. Durante la giornata era buono, tranquillo; ma, di mano in mano che s’inoltrava la sera, il giovane don Ciccio diveniva irrequieto, smanioso, intrattabile.

— Che hai?

— Niente!

— Va’ a fare due passi. Trova qualche amico.

— Do fastidio, forse?

— Non posso vederti aggirare per le stanze come una mosca senza capo.

— Me ne vado a letto; sarà meglio.

E a sua madre che andava a trovarlo in camera e tornava a domandargli con insistenza se si sentisse male, rispondeva soltanto:

— Fammi il piacere di chiudere a chiave l’uscio; così dormirò senza disturbi.

— Quali disturbi?