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dalla serietà, dalla dignità della rigida accoglienza che sembrava volesse dire:

— Sì, sono io.... ma non sono più quello.

Soltanto Pasquale Rosada che aveva, per due anni, abitato nella stessa topaia, quando frequentavano il ginnasio e che non aveva mai smarrito il buon umore neppure nei momenti più tristi, soltanto lui non si era lasciato imporre dall’aria solenne la mattina che lo aveva incontrato in cappello a cilindro, redingote e guanti neri. Gli si era piantato dinanzi squadrandolo da capo a piedi e gli aveva detto, ridendo:

— Guarda!... Romero!... Indovino? Direttore di un ufficio di pompe funebri. Mi rallegro!

E con tutta la severità del vestito e con la premura che aveva di non mancare al trasporto di un commendatore segretario al Ministero della guerra, Romero si degnò di stringere la mano di Rosada e di atteggiare le labbra a qualcosa, che avrebbe potuto sembrare un sorriso di compatimento.

— Tu non invecchi, tu non cangi mai! — gli disse — Beato te!

— Vediamoci, rimango qui una settimana. Dove posso venire a trovarti?

Romero gli diè il suo indirizzo.

Era contento di far sapere all’antico compagno di ginnasio, il gran mutamento avvenuto nella sua vita. Nato da buona famiglia — sua madre si gloriava di aver sangue nobile nelle vene — aveva goduto appena gli ultimi bagliori dell’agiatezza del patrimonio dei Romero, andato in rovina per colpa del padre. Rosada appunto lo aveva conosciuto quando tutti e due stentavano a proseguire gli studi per poter arrivare a carpire un impiego. Poi:

          Tu ver Gerusalemme, io ver l’Egitto.