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quei due, marito e moglie certamente, che s’abbracciavano in mezzo alla stanza credendo di non essere veduti, fossero uno spettacolo per lei.

Un’altra mattina, invece di biancheria, lassù, sciorinavano dei tappeti; quella giovane in veste grigia da camera con grandi ricami rossi che si vedeva distintamente, e pettinandosi sul terrazzino, si serviva dei vetri dell’imposta per specchiera, doveva essere molto bella. Andava e veniva, forse per cambiare il pettine, forse per prendere delle forcine... Parlava con qualcuno che non si scorgeva. Era allegra, rideva... Doveva esser felice!...

— Ah, Signore!... Che cosa avviene dentro di me? Si sentiva quasi destare da profondissimo sonno. Il sole, inondando la camera, le metteva vivi formicolii per tutta la persona; gli sbuffi d’odor di zàgara, che il vento trasportava da lontano, dai giardini di aranci della Conca d’oro, le turbavano la testa. E se ne stava tutta la giornata rifugiata là, come in un angolo di paradiso, senza più impensierirsi della malattia della bimba; paga di stringerne fra le mani le manine arse dalla febbre; bevendosi tutta quell’aria, assorbendosi tutta quella luce, inebriandosi di quei rumori e di quegli odori. E quando, sul tardi, all’abbassarsi del sole, bisognava chiudere l’imposta, e compariva nella cameretta la faccia gialla e scarna del marito ritornato dal Tribunale, ella provava una stretta al cuore, e ricadeva nella torpida inerzia che durava da anni.

Poi quei turbamenti, quelle vertigini le diedero insonnie tormentose, le stesse insonnie di suo marito. Fingeva però di dormire, rannicchiata nel proprio cantuccio di letto, quasi raffrenando il respiro, e la mattina, saltava giù che non era neppure l’alba, con la scusa della bimba, ma veramente per guardare di là, veder ripetere l’incantesimo del giorno avanti.