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[St. 27-30] libro ii. canto xxx 503

         Tanta possanza avea quel maledetto,
     Che per la fronte gli partì la faccia,
     E ’l collo aperse e giù divise il petto,
     Chè non vi valse usbergo, nè coraccia.
     Or bene ebbe Ranaldo un gran dispetto,
     E con Fusberta adosso a lui se caccia:
     Dico Ranaldo adosso a Martasino
     Lascia un gran colpo in su l’elmo acciarino.1

         Forte era l’elmo, come aveti odito,
     E per quel colpo ponto non se mosse,
     Ma rimase il pagano imbalordito,
     Chè la barbuta al mento se percosse,
     E stette un quarto de ora a quel partito,
     Che non sapeva in qual mondo se fosse;
     E, mentre che in tal caso fa dimora,
     Re Marbalusto col baston lavora.

         Ad ambe mano alzò la grossa maccia,
     E sopra al fio de Amon con furia calla;
     Ranaldo a lui rimena, non minaccia,
     Con sua Fusberta che giamai non falla.
     Meza la barba gli tolse di faccia,
     Chè la masella pose in su la spalla,
     Nè elmo, o barbuta lo diffese ponto,
     Chè ’l viso gli tagliò, come io vi conto.

         Smarito di quel colpo il saracino
     Subitamente se pose a fuggire,
     E ritrovò nel campo il re Sobrino,
     Qual, veggendo costui in tal martìre,
     Ove è, cridava, dove è Martasino
     E Bardarico, che ebbe tanto ardire?
     Ov’è Tardoco, il giovane mal scorto?
     Scio che Ranaldo ogniun di loro ha morto.2

  1. T., Ml. e Mr. omm. e.
  2. Ml. ognun.