[St. 27-30] |
libro ii. canto xxx |
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Tanta possanza avea quel maledetto,
Che per la fronte gli partì la faccia,
E ’l collo aperse e giù divise il petto,
Chè non vi valse usbergo, nè coraccia.
Or bene ebbe Ranaldo un gran dispetto,
E con Fusberta adosso a lui se caccia:
Dico Ranaldo adosso a Martasino
Lascia un gran colpo in su l’elmo acciarino.1
Forte era l’elmo, come aveti odito,
E per quel colpo ponto non se mosse,
Ma rimase il pagano imbalordito,
Chè la barbuta al mento se percosse,
E stette un quarto de ora a quel partito,
Che non sapeva in qual mondo se fosse;
E, mentre che in tal caso fa dimora,
Re Marbalusto col baston lavora.
Ad ambe mano alzò la grossa maccia,
E sopra al fio de Amon con furia calla;
Ranaldo a lui rimena, non minaccia,
Con sua Fusberta che giamai non falla.
Meza la barba gli tolse di faccia,
Chè la masella pose in su la spalla,
Nè elmo, o barbuta lo diffese ponto,
Chè ’l viso gli tagliò, come io vi conto.
Smarito di quel colpo il saracino
Subitamente se pose a fuggire,
E ritrovò nel campo il re Sobrino,
Qual, veggendo costui in tal martìre,
Ove è, cridava, dove è Martasino
E Bardarico, che ebbe tanto ardire?
Ov’è Tardoco, il giovane mal scorto?
Scio che Ranaldo ogniun di loro ha morto.2
- ↑ T., Ml. e Mr. omm. e.
- ↑ Ml. ognun.