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[St. 27-30] libro ii. canto xxvi 439

         Quando ciò seppi, tu debbi pensare
     S’io biastemavo il celo e la natura;
     E diceva: Macon non potria fare
     Che mai segua sua legge e sua misura,
     Poi che mi volse femina creare,
     Chè nasciemo nel mondo a tal sciagura,
     Che occelli e fiere et ogni altro animale
     Vive più franco et ha di noi men male.

         E ben ne vedo lo exempio verace:1
     La cerva e la colomba tuttavia
     Ama a diletto e segue chi gli piace,
     Et io son data a non so chi se sia.
     Crudel Fortuna, perfida e fallace!
     Goderà adunque la persona mia
     Questo barbuto, e terrammi suggetta,
     Nè vedrò mai colui che mi diletta?

         Ma non serà così, sazo di certo,
     Chè ben vi saprò io prender riparo.
     Se ogni proverbio è veramente experto,
     L’un pensa il giotto, e l’altro il tavernaro.
     Se lo amor mio potrò tenir coperto
     Che non lo intenda alcuno, io lo avrò caro,
     E non potendo, io lo farò palese;2
     Per un bon giorno io non stimo un mal mese.

         Io faceva tra me questo pensiero
     Che io te ragiono; ma il termine ariva
     Che andarne sposa mi facea mestiero.
     Io non rimasi nè morta nè viva,
     Chè Teodoro, il mio bel cavalliero,
     Si resta a casa, et io di lui son priva.
     A Bursa andar convengo, in Natollia,
     Ove mi mena la fortuna ria.

  1. Mr. omm. ne; T. legge E ben vedo lo exempio assai verace, ma le ultime parole sono di altra mano.
  2. Mr. io farò; P. lo farò.