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352 LA TESEIDE


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E poi ch’Arcita l’ebbe rimirata
     Con occhio attento, siccome potea,
     Ed ebbe bene in sè considerata
     La gran bellezza che la donna avea,
     Cominciò con sembianza trasmutata
     A parlare in tal guisa qual potea,
     Premessi avanti dolenti sospiri,
     Caldo ciascun d’amorosi disiri.

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Piangemi amor nel doloroso core
     Là onde morte a forza il vuol cacciare;
     Nè vi può star, nè uscire ne può fuore,
     Sì ch’io il sento in me rammaricare
     Con pianti, e con parole di dolore
     Accese più che non potrei narrare:
     In forma che di sè mi fa pietoso,
     Ed oimè lasso, oltre ’l dover noioso.

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Gli spiriti visivi assai sovente
     Mostrano a lui l’angelica figura,
     Per la qual’esso nel core è possente,
     Dicendo: deh fia tal nostra sciagura,
     Che ci convenga teco insiememente
     Abbandonar sì nobil creatura?
     Esso risponde loro, e sì gli abbraccia,
     Dicendo: si, che morte me ne caccia.