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novella settima 271

     Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,
ch’a messer vadi lá dove dimora;
di’ che sovente lui disio ed amo,
sí dolcemente lo cuor m’innamora:
e per lo foco ond’io tutta m’infiamo
temo morire, e giá non saccio l’ora
ch’i’ parta da sí grave pena dura
la qual sostegno per lui disiando,
temendo e vergognando;
deh! il mal mio per Dio fagli assapere.
     Poi che di lui, Amor, fu’ innamorata
non mi donasti ardir, quant’ho temenza
che io potessi sola una fiata
lo mio voler dimostrare in parvenza
a quegli che mi tien tanto affannata;
cosí morendo, il morir m’è gravenza:
forse che non gli saria dispiacenza
se el sapesse quanta pena i’ sento,
s’a me dato ardimento
avesse in fargli il mio stato sapere.
     Poi che ’n piacere non ti fu, Amore,
ch’a me donassi tanta sicuranza,
ch’a messer far savessi lo mio core,
lassa! per messo mai o per sembianza,
merzé ti chero, dolce mio signore,
che vadi a lui: e donagli membranza
del giorno ch’io il vidi a scudo e lanza
con altri cavalieri arme portare:
presilo a riguardare
innamorata sí, che ’l mio cuor pére.


Le quali parole Minuccio prestamente intonò d’un suono soave e pietoso sí come la materia di quelle richiedeva, ed il terzo dí se n’andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare; dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sí dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n’erano parevano uomini adombrati, sí tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, ed il re per poco piú che gli altri. Ed avendo Minuccio