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280 capo xxviii.

Padre, così gli piacquero che prese affetto all’autore, a cui servirono di merito ad ottenere varii impieghi. Il Pallavicino adunque fino ai trent’anni non fece altro che occuparsi di poesie, che ora più nissuno legge, e di bella letteratura qual era intesa a quel tempo, cioè l’arte di affastellare in un discorso parole toscane cucite insieme con sonora eleganza e a punto di grammatica, ma vuote di pensieri. In fatto di ciò che si chiama comunemente bello stile, e che meglio sarebbe detto bella locuzione, il Pallavicino divenne peritissimo, ed è uno dei più tersi scrittori che vanti l’Italia. Ma per questi frivoli studii trascurò altri più sodi, le scienze positive, la filosofia naturale, l’istoria, la critica, l’erudizione sacra e profana, nelle quali, tranne ciò che aveva appreso nel collegio dei gesuiti, era poco men che digiuno. Nel 1637 lasciò la carriera delle dignità civili per vestir l’abito de’ gesuiti, e dato un calcio ad Apollo si gettò tutto in braccio di Aristotele, e spese sedici anni a studiare la logica, retorica, etica, politica ed altre inutilità di questo filosofo e divenne uno de’ più sfegatati peripatetici del suo tempo. Nella teologia poi il suo oracolo fu l’angelico dottore San Tommaso d’Aquino, al quale prese tanta riverenza che conservava con una devozione puerile un frusto del berrettino di quel sacro dottore. Tale era il campione destinato dalla Curia ad eclissare la gloria di Frà Paolo Sarpi.

Morto l’Alciato, il cardinale Bernardino Spada lo incaricò di terminare l’impresa di lui; ma il Pallavicino essendo allora occupato nella congregazione deputata all’esame del libro di Cornelio Giansenio,