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capo xxviii. 279

fra i documenti quelli che più gli convenivano, di dissimularne altri che non tornavano di suo conto, e di chiarire o tacere i fatti secondo che conferiva al suo scopo. L’opera, siccome destinata precipuamente al mondo letterario, doveva essere scritta in latino: ben pensando il gesuita che quella sua collettanea sarebbe fra poco diventata il testo su cui avrebbono lavorato tutti i scrittori di storia e di compendi, i dissertatori e i critici amici alla Curia; e che producendosi al pubblico con un’aria di buona fede, come di chi perorando una causa tralascia i discorsi, e mette innanzi gli allegati, avrebbe avuto il vantaggio sul suo antagonista che si dà egli stesso testimonio di ciò che asserisce. Ma non ebbe tempo di compiere il suo lavoro, essendo morto nel 1651. Era a ciò destinato dai cieli il celebre Sforza Pallavicino che fu cardinale.

Nato in Roma nel 1607 da famiglia illustre del Parmigiano ma scaduta di ricchezza e potenza, studiò nel collegio romano de’ gesuiti, dove fu laureato nella giurisprudenza civile e canonica e nella teologia scolastica. Dal padre fu di buon’ora applicato a servire nella corte pontificia, dove poi contrasse quel genio servile ed adulativo che campeggia particolarmente nella sua Istoria. Siccome papa Urbano VIII si puntigliava di essere poeta, il miglior modo di andargli a sangue era di compiacerlo in questa sua fisima, lodare i suoi versi, e farne; quindi la corte ponteficia era piena di rimatori, e invece di cantar salmi i preti cantavano i loro amori. Il Pallavicino che era giovane non volle essere meno degli altri, e i suoi versi portati a’ piè del Santo