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capo xxiii. 211

a Roma, ma il governo veneto non aveva mutato parere. Nel 1612 il Bellarmino pubblicò il suo libro sulla potestà del pontefice; il Consiglio dei Dieci lo proibì, Roma se ne dolse, chiese la proibizione di altri libri, ma indarno. Finalmente nel 1615 apparve in Venezia un trattato in cui fra gli abusi degni di emenda nel corpo politico erano dimostrate le immorali conseguenze del celibato ecclesiastico. Si commosse allora tutto il vespaio dei preti: l’Inquisizione pretese di staggire il libro e l’autore e lo stampatore, l’appoggiava il nunzio e suscitava a nome del Santo Padre la questione dell’Indice. Ma il governo fu fermo nel suo proponimento e chiese al Consultore a quali condizioni fosse stato ammesso il Sant’Offizio, con quai leggi regolato, e come si potesse dargli un assetto definitivo onde in avvenire non potesse più uscire dai suoi termini; e in ultimo che si dovesse pensare sopra la materia dei libri proibiti, e fin dove appartenesse alla ecclesiastica, fin dove alla civile potestà. Fu allora che il Consultore scrisse il suo Discorso della origine, leggi ed uso dell’Offizio della Inquisizione in Venezia, che può dividersi in tre parti: la prima comprende una ricapitolazione dei decreti del Senato e del Consiglio dei Dieci distribuiti in 39 capitoli o regole da osservarsi nella pratica di quel tribunale; nella seconda espone l’istoria del Sant’Offizio e come fu introdotto in varii stati e con quali forme; la terza è un commentario sui 39 capi anzidetti dove non solo li spiega, ma dimostra con la ragione e coi fatti la necessità di doverli adottare. L’opera è delle più