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Non c’era altro da replicare. Quei segni potevano benissimo rappresentare il porto di Siracusa, nell’anno 212 innanzi l’èra volgare, quando il console Claudio Marcello assediava la città, e Archimede la difendeva colle sue trovate scientifiche. Potevano, dico; se poi rispondessero al vero, non era da noi l’indagare.

Anch’io fui invitato quella sera a chiamare uno spirito; ma avevo fresca la memoria del mio caso con Dante, e non volli procurarmi a così breve distanza di tempo una seconda canzonatura. Altri, in quella vece, chiamò Marco Tullio Cicerone. E qui, si capisce, grande curiosità, grande aspettazione di tutti i presenti, come quando in una brigata si annunzia l’arrivo di un personaggio eminente. Archimede poteva esser grande fin che voleva, come un insigne matematico, ma i più potevano anche ignorare i suoi meriti altissimi: nessuno poteva per contro ignorare la solenne figura storica di Cicerone, gran politico, gran filosofo, grande oratore, anzi l’oratore per eccellenza.

Cicerone arriva; e subito l’invocatore, posando la mano su quelle del mediatore, gli volge la sua domanda mentale. La risposta non si fa aspettare; Marco Tullio entra in argomento ex abrupto, come aveva fatto a’ suoi tempi con Sergio Catilina, e scrive quella risposta in una sola parola:

Utike. —