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alternava i suoi esercizi di ricamo e di cucito con la lettura e lo studio delle lingue. Al pianoforte non si sedeva che la sera, dopo cena: ed era quella una festa quotidiana per il buon popolo di Mercurano, che stava accalcato in istrada a sentire, ammirando lei e lodando il senno del babbo. Felice lui che aveva i quattrini, e viva la faccia sua per averli saputi spendere, facendo educare così bene la sua cara figliuola! E si pensava ancora con desiderio a quella santa donna della signora Giuditta. Se avesse potuto rialzare la testa, come si sarebbe ringalluzzita, la povera madre, sentendo suonare così bene quel prodigio di ragazza!

Sentivano loro, e nient’altro che le sue note al pianoforte. Che cosa avrebbero detto, udendo i discorsi della signorina, come poteva udirli ogni giorno, in fin di tavola, il signor Demetrio Bertòla, suo fortunatissimo babbo! Egli, dopo il ritorno della sua Fulvietta (scusate, bisognerà dire della sua Fulvia) non andava più tanto all’osteria, per giuocare a tarocchi. Stava in conversazione, in conversazione lui, che di conversazioni non aveva mai avuto la più lontana idea; e sentiva parlare di letteratura, di storia antica e moderna, perfino di belle arti, come se quello fosse stato il suo pane intellettuale di tutti i giorni dell’anno. S’intende che restava a bocca aperta, non mettendoci mai nulla di suo, il pover'uomo; ma purtroppo bisognerà confessare che non poteva, restando a bocca aperta, tenere egualmente gli occhi aperti. A una mezz’ora di tensione ci reggeva abbastanza; ma non andava più in là, e si appisolava regolarmente sul suo seggiolone.

— Tutti questi vostri grand’uomini, mi dànno il capogiro, — diceva egli a sua scusa. — Specie i poeti, con quel loro scrivere a righe corte, che non sono mai riuscito ad intendere il perchè.

— O babbo! — esclamava la signorina Fulvia. — Ci hai pur messo Dante, sulla facciata della tua casa, ed anche al posto d’onore.

— Sicuro, che ce l’ho messo. È un grand’uo-