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stata dieci volte più fredda, nemmeno. Che rimaneva? Sottrarsi agli spasimi d’una lenta agonia; accorciare la strada, correndola a precipizio; vivere sfolgorando a guisa del fulmine; ardere, consumarsi, morire.

E questo pensiero, nato appena, s’ingigantì nella mente di Aloise, fu arbitro di tutte le opere sue. Egli arse le sue navi, come chi non abbia speranza nè desiderio di ritorno. Quello era il campo ignoto dov’egli voleva vincere o morire. La bella Ginevra, per miracolo da lui non sperato, e quasi diremmo neppure invocato, avrebbe avuto compassione di lui? Egli si sentiva la virtù di rifar la trama della sua vita da capo. O, come gli diceva il cuore indovino, avrebbe durato nel suo riserbo invincibile? Ed egli periva. Il suo rogo era pronto; già v’era appiccata la fiamma. Così, fermo nel fiero proposito col sorriso dello spensierato sulle labbra, coll’aspra voluttà del suicida nel cuore, si gettò ad occhi aperti nel vortice.

Da quel dì, Genova non ebbe più magnifico cavaliere, nè più cortesemente superbo di lui. Già aristocratico per natali e per attinenze, divenne tale anche nelle forme del vivere. Le mute della sua rimessa erano il meglio che uscisse dalle officine di Milano e Parigi; i suoi cavalli da sella e da tiro, ammirati, decantati, dall’universale, come i migliori che fossero in città, volavano via come il vento, portando la sua fortuna; quei generosi cornipedi, imitando la serena baldanza del padrone, galoppavano in pendìo senza badare a pericoli. E coloro che vedevano il marchese di Montalto uscire a quel modo fuori di riga, correvano col pensiero alle ricchezze facilmente esagerate del vecchio Vitali; e i milioni del nonno davano loro la chiave delle larghe spese del nipote.

Questa opinione del volgo, alla quale non aveva pensato Aloise, lo aiutò, senza sua saputa, a cansar l’accusa di pazzo, vanitoso che corresse a rovina. Il marchese Antoniotto, egli stesso, la pensò come il volgo, e quella insolita maniera vivere sfoggiato gli parve naturalissima per conseguenza. Abbiamo già detto a suo luogo che Bonaventura non lo metteva a parte di tutti i suoi segreti. Il tiranno di Quinto era l’insegna di bottega del partito clericale, o, per dirla meno bassamente, il suo gran diplomatico, e tale aspirava a diventare altresì per la monarchia di Savoia, quando essa, come a lui pareva probabile, avesse dato un calcio a tante sciocche fantasticherie liberalesche; intanto leggeva discorsi in Senato, che mandavano in visibilio l’Armonia, e facevano dire al Monde di Parigi: - voilà l’homme d’état qui conviendrait le mieux à1 ce pauvre roi

  1. Nell’originale "a".