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tati dagli immensi ghiacciai dell’epoca terziaria. Ciò mi solleva di qualche cubito nell’estimazione dei miei uditori; ci divento il geologo, lo scienziato della spedizione. A buon patto, non è vero? Ma io non ne abuso, e mi chiudo tosto in un prudente riserbo. Troppo vorrebbero saper ora da me le graziose signore, specie in materia di botanica, e più che io non mi ricordi d’averne imparato a pezzi e bocconi.

Seguendo i capricci del sentiero, si passa l’acqua almeno una dozzina di volte; si beve a tutti gli zampilli delle balze circostanti; si assaggiano tutti i frutti che offre la macchia. Abbondano le bagole, piccoli chicchi d’uva nera, che nascono dai ramicelli d’una specie di mirto, tanto graditi nell’autunno agli uccelli di passo; si trovano perfino le nespole selvatiche, piccine, ma più fresche al palato e più gustose delle domestiche. La signorina Wilson fruga per tutte le siepi, e ad ogni frutto che vede, domanda a me se può metterci il dente. “Mangi pure, signorina; queste bacche dal colore dell’indaco son le prune