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nardo scendevano al piano inferiore, rincorrendo giù per le scale il Sangonetto fuggente. E là in cambio di trovar lui, che s’era accovacciato in qualche angolo per aspettare il destro di uscirne, s’imbattevano nelle tenebre in una masnada di gente, che diè loro addosso con furia. Era il grosso della compagnia, guidato dal Cappa, che spandendosi per le sale e non pensando agli amici del pian di sopra, li toglieva in iscambio, assalendoli vigorosamente, al grido di San Giorgio e Carretto. Nè valse a tutta prima il rispondere in quella medesima guisa; il furore è cieco, e sordo per giunta, e la prudenza, poi, teme sempre d’insidie. Allorquando i combattenti si persuasero d’esser tutti della medesima insegna, non era più tempo di far opera utile; che la gente di messer Pietro Fregoso era accorsa con impeto gagliardo ed alte grida di guerra, dal pianterreno, ove già aveva fatto prigione lo scarso presidio, e Giovanni di Trezzo giungeva dall’altra banda, pigliando in mezzo i mal capitati soccorritori. Violento fu l’urto, e più assai la confusione che la pugna. Le fiaccole portate dagli uomini di Giovanni di Trezzo, illuminando le sale, diedero agio ai genovesi di compir l’opera, cansando l’errore in cui erano incappati i nemici, col picchiarsi alla cieca tra loro. Molti in questa occasione furono i morti; i superstiti, come di leggieri s’argomenta, caddero tutti prigioni.

Fornita questa bisogna, e padroni oramai del castello nella sua parte più ragguardevole, i genovesi pensarono di occupare altresì il piano superiore, per sincerarsi che non vi fossero altri difensori appiattati. A tale impresa, che richiedeva, oltre il valore, un tel