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PARTE QUARTA


lissima grazia riverentemente le rispose: signora duchessa, questa mia bellezza, quale ella si sia, non mi ha ancora saputo acquistare cotale acquisto di amico nè servitore. A questo la duchessa, colma di rabbiosa gelosia e invidia, crollando la testa, dispettosamente rispose: Bella nipote, bella nipote, io vo’ che voi sappiate che al mondo non è amore sì segreto, che alla fine non venga in luce e si discopra, nè picciolo cagnoletto sì maestrevolemente instrutto e fatto alla mano, il cui ordinato abbaiare a lungo andare non s’intenda. Io vi lascio pensare, eccellentissima madama, e voi, amabilissime signore e cortesi signori quale fosse il dolore e l’estrema angoscia che il core trafisse a la sfortunata dama del Verziero, veggendo una tale cosa, tanto lungamente tenuta segreta, essere discoperta. Credette ella che Carlo, per qualche proposito che altre volte detto della duchessa le avea, fosse veramente innamorato di quella, e che per questo a lei avesse scoperto il caso del cagnoletto. Il che molto più di ogni altra cosa la tormentava, rodendole il core il freddissimo e mordacissimo verme della pestifera gelosia. E ben che di doglia ella si sentisse venire meno, tuttavia la sua virtù fu sì grande e costante e così bene seppe reprimere l’interna passione, che, celando il suo acerbo dolore, quasi sorridendo, a la duchessa rispose che ella non si intendeva di linguaggio di bestie. Non fu nessuna di quelle dame, che di brigata con la duchessa erano, che intendesse a che fine ella di abbaiare di cane avesse parlato. Stette un poco la dama del Verziero, e poi, levatasi da sedere, e sovra modo dolente e di immenso cordoglio ripiena, passò nella camera del duca e da quella intrò nella sua ove era alloggiata. Passeggiava il duca e vide la nipote intrare in camera, e pensò che vi andasse per alcuno suo bisogno. Quando la sfortunata dama fu in camera, senza serrar la porta e credendo essere sola, si lasciò, come da la nativa forza abbandonata, cadere sovra il letto. Una damigella, che colà si era per dormire posta tra la cortina del letto e il muro, sentendo il romore che la misera dama cadendo su il letto fece, alzata un poco la cortina, conobbe la dama e non osò dire nulla, ma cheta se ne stette. Essa dama, allargato il freno a le amarissime lagrime, con una fioca voce in cotale maniera dicendo, si sforzava di sfogare l’acerbissimo suo dolore: Ahi, misera me! che parole ho io udito dire? Elle sono pure la diffinitiva sentenza della morte mia. Io pure ho chiaramente inteso il fine della vita già felice, ora infelicissima. Oh il più amato che fosse da donna già mai, è questa la ricompensa, è questo il guiderdone del mio onesto, casto e virtuoso amore?