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servire una vanga di legno, nè fatica o tempo impiegati per fabbricarmela fecero sì che mancando del ferro, non si logorasse ben presto, e rendesse i lavori eseguiti con essa e più penosi e più imperfetti. Pure mi rassegnai a valermi di ciò che aveva, e la peggiore riuscita non giunse a disanimarmi. Seminato il grano, io mancava di erpice, ond’era costretto a trascinare sul terreno un grosso ramo di albero che lo grattava per così esprimermi in vece di rastrellarlo o tritarlo. Mentre il grano andava crescendo o era cresciuto, osservai già quante cose mi mancavano per custodirlo, assicurarlo, mieterlo, tirarlo a casa, trebbiarlo (che per me era sgranarlo) e preservarlo; poi mi bisognava un mulino per macinarlo, un vaglio per cernerlo dalla crusca, lievito per convertirlo in pane ed un forno per cuocerlo; pure io feci senza di tutte queste cose come si vedrà in appresso. L’avere il grano era già un conforto ed un vantaggio inestimabile per me; certo tutte l’altre fatiche che venivano di conseguenza dietro a tale possedimento, spaventavano per la difficoltà e molestia congiunte con loro; ma non vi era rimedio. Poi dall’altra parte non ravvisava in ciò una troppa perdita di tempo, perchè, come io lo aveva diviso, una certa parte di esso era ogni giorno assegnata a questi lavori; e poichè aveva deciso di non convertire in pane il mio grano finchè non ne avessi raccolta una maggiore quantità, mi restavano tutti i prossimi sei mesi per dedicarmi interamente alle fatiche e agli studi necessari per fabbricarmi tutti gli stromenti opportuni alle operazioni che ci volevano, affinchè il grano raccolto mi fosse di un verace giovamento.