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tornata del 16 aprile


mai copia sè stessa; ed i fatti che si possono addurre giustificano i fatti medesimi, ma non possono costituire un principio. La ragione sta nel non esservi parità di circostanze. Fino ai nostri giorni le assunzioni al trono non aveano che due origini: la successione e la conquista. E sarebbe stato illogico volere che l’erede, occupante il posto del suo autore, per la regola che il morto abbraccia il vivo, si potesse esimere dall’essere un anello progressivo della catena, un anello che, per esser saldo, doveva rimaner legato agli avi, per dar mano ai suoi successori. Dicasi lo stesso per la conquista: subbiettivamente il conquistatore non muta, rimane lo stesso; non è illogico che conservi il suo nome.

Ma può dirsi lo stesso, quando diverse frazioni di nazione si riscuotono per invocare il loro diritto, per rinnovellarsi ed affermarsi? Avete invece un fatto nuovo, che non può essere signoreggiato da regole antiche. Il fiat, che ha creato il regno d’Italia, mette una diga tra il passato, doloroso comunque illustre, e l’avvenire che si spera lieto e glorioso. Comincia una nuova êra; comincia una nuova serie di principi.

E se, lo ripeto, la presente discussione fosse accademica, vi direi che, conservando l’epiteto consueto, impicciolireste il nuovo monarca. Se desso nulla avesse fatto, lo avreste senza dubbio chiamato Vittorio Emanuele II. Ed ora che la sua lealtà ed il suo valore lo han renduto creatore di una grandezza, ch’era follia sperare, gli conserverete lo stesso nome? No; bisogna dargli la gloria che gli compete, il nome dovuto al fondatore di una grande nazione, che riconoscente lo acclama.

Invano udrei parlarsi di spezzate tradizioni di famiglia. Vittorio Emanuele deve al nascere della leale famiglia la sua crescente grandezza; i suoi tardi nepoti non obbliino giammai la purezza di loro origine.

Ma se i suoi grandi avi potessero alzare il capo dall’onorato avello, imporrebbero a lui, imporrebbero a noi, d’inaugurare un’êra novella, di cominciare una nuova storia, monda di grettezze municipali; poiché è gloria dei padri che i figli sien più grandi di loro. Con diversi principii il macedone Filippo avrebbe dovuto dar commiato allo Stagirita, affinchè il giovane conquistatore dell’Asia non divenisse più grande di lui. Bernardo Tasso avrebbe dovuto strozzare la sorgente soverchiatrice fama del cantore del Rinaldo innamorato... Ma non è inutile che io mi sforzi a dimostrare gli assiomi?

Vi direi che sta nelle gloriose tradizioni di Casa Sabauda un irrecusabile precedente. Il grande Amedeo VIII aveva esaurito la parabola delle umane grandezze: eroe, legislatore, fondatore di uno Stato potente, padre de’ suoi sudditi. Ripaille lo accoglie, come oasi nel deserto della vita; ma basta il suo nome glorioso per richiamare il concorso dei più distinti personaggi, fra cui il futuro Pio II. Or bene, venne assunto al potere delle somme chiavi, ed assume il nome di Felice V.

Signori, non vedete in questo che i grandi avi del monarca italiano, nelle occorrenze, abbandonano il loro nome illustre, famoso, per prendere quello che conviene alla nuova maggiore dignità? E come non direte mal fatto, che Amedeo VIII si fosse chiamato Felice V, direte benissimo fatto che Vittorio Emanuele II, glorioso Re di Sardegna, si chiami da ora innanti Vittorio Emanuele I Re d’Italia.

Ma noi versiamo non in rettoriche elucubrazioni, sebbene in gravissimi studi politici; misuriamo dunque l’opportunità del da farsi sul ragguaglio dell’utile e del nocumento che potrà derivarne nella politica esterna e nell’interna

Nella esterna.— Se si prescinda dall’Austria, tutte le nazioni civili hanno spiegato le più calde simpatie per la risur
rezione della genitrice della civiltà: anche i loro Governi, comunque pieganti alle esigenze diplomatiche, non han potuto maledire all’alma parens, scossasi dal millenare letargo. La nobile Inghilterra, la libera Svizzera, i democratici Stati Uniti, han fatto voti per noi. La potente Francia ha contratto il vincolo del solido, col cemento del sangue latino, che scorre nelle comuni vene, e che ha sì generosamente sparso per noi. Checché sia del Governo, le magnanime Cortes ci han mandato il saluto della fraternità; parole di caldo affetto riguardo al Piemonte si sono pronunziate nella Camera della Germania. Pare che siasi avverato il vaticinio del bardo di Albione:


Pentita un dì del parricidio, Europa
Sarà tuo schermo; e la barbarica oste,
Indietro spinta, chiederà perdono.


Or bene, rappresentanti, può immaginarsi che tutte queste grandi nazioni, che non hanno strozzato il gran fatto della unificazione italiana quando ancora era dubbio il suo possibile trasmodamento, si dolgano del nome che sarà per prendere il Monarca italiano? Il timore avrebbe dovuto aver luogo per la formazione di un nuovo gran regno, quante volte questo non avesse avuto il senno che i suoi stessi nemici debbono riconoscere; quante volte avesse mostrato la impossibile follia di volere egredire i limiti tracciatigli dal dito di Dio, le Alpi ed il mare. Ma per un nome non si fa la guerra, nè i politici leggono sul serio la dissertazione ingegnosa dello Sterne sulla influenza dei nomi, poiché la politica lavora sulla storia, non già sui romanzi.

Ma l’Austria? Dessa, che due anni or fa metteva in parodia il suo picciolo vicino, e rammentava l’apologo della ranocchia e del bue! Oh! l’Austria ha senza dubbio smesso tal vezzo dopo Palestro e San Martino. Ma credete che ha bisogno di nomi per sognare alla preda l’aquila grifagna — Che per più divorar due becchi porta?

Dilemma: gli stranieri amici, od almeno imparziali, se ci consentono il fatto della unificazione, non possono dissentire che usassimo la parola che lo manifesta, non l’altera. I nemici, gl’invidi, i gelosi, e come tutti gl’irragionevoli, son pochi, ci avverseranno per la cosa, non già per la parola.

Politica interna.— Rappresentanti d’Italia, non avrei osato sì lungamente fastidirvi, se fondatamente non temessi che questa quistione nominale non sia di alta importanza per la nostra pace domestica. La unanime armonia, che ha finora imposto all’ammirazione di Europa, è sì bella, sì fruttuosa, che ognuno di noi dee tremare che un’aura la scuota, un respiro la appanni.

Il mezzogiorno d’Italia non istava bene; perciò con tanta unanime alacrità sorse a spezzare il giogo borbonico, e lo infranse per sempre.

Ma quel giogo era sorretto da una casta incorreggibile, dalla burocratica miriade di sozze e voraci arpìe. Udiste in occasione delle interpellanze dell’onorevole Massari, che i poteri succeduti al borbonico hanno creduto possibile il miracolo di convertirla e correggerla. Io sono per indole ottimista e desidero che il miracolo avvenga; ma, perchè miracolo, non vi credo.

Quel giogo, che dalla sana parte del nostro clero, molti del quale seggono onorevolmente in quest’aula, era maledetto, veniva però predicato soave da altra miriade di frati e di preti, che, scambiando il sacerdozio in mestiere, non poteano maledire nel Borbone quel che si praticava dal Governo papale. Quelle prediche, d’altronde, erano l’unica moneta corrente per lo acquisto delle mitere e dei pastorali.

Sveltissima, ma ignorante d’ignoranza coltivata, è la mag-