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camera dei deputati -- sessione del 1861


quali, nell’ordine storico, quella formola è associata. Egli riproduceva così, sotto aspetto diverso, lo stesso argomento dell’abuso della formola per grazia di Dio.

Or bene, io darò una risposta più diretta a questa obbiezione, e ora dirò francamente che io desidero che la presente formola sia nelle nostre leggi, perchè essa, nella mia convinzione, esprime ciò che appunto ora noi stiamo facendo.

Quando fu introdotta cotesta formola? Fu un tempo in cui il pontefice, amando usare le somme chiavi ad altro fine che non a quello pel quale gli furono date, si creava da sè dispensatore delle corone e dei troni; fu un tempo in cui l’imperatore d’Occidente, volendo rinnovare ciò che rinnovar non potevasi, l’impero del mondo che un dì aveva appartenuto a Roma, proclamava suoi vassalli tutti i principi d’Europa. Allora quei re che sentirono in sè medesimi tanta energia e tanta potenza da proclamarsi tali senza il beneplacito di imperatori o di pontefici, si intitolarono: Re per la grazia di Dio.

E noi, che cosa vogliamo or fare, o signori? Noi vogliamo dire al mondo che l’Italia ha diritto di essere nazione, senza chiedere licenza a chicchessia; noi vogliamo dire al mondo che l’Italia ha in sè medesima il diritto di attuare e di affermare la propria personalità. E questo concetto appunto, riannodando il filo storico, noi lo proclameremo, dichiarando che il Re d’Italia è Re per la grazia di Dio, perchè indicheremo con ciò che il nostro diritto, come ha le sue radici nella giustizia eterna ed inviolabile, così non riconosce alcun superiore in questo mondo, e non dipende e non deriva da altri, che da Dio.

Dimodoché io accetto codesta formola, e l’accetto tanto più volentieri in quanto che esprime, a mio avviso, il carattere vero del diritto che vogliamo affermare.

D’altronde, quando non si elimina il concetto della Divinità, è possibile trovare un’altra formola più appropriata? Ne fu proposta alcuna; udiste dalla relazione come un ufficio votasse questa formola: Re per la volontà di Dio e della nazione. Ma, signori, quando cominciate a metterci la volontà di Dio, io non so più che cosa ci abbia a fare la volontà della nazione. Forsechè la volontà della nazione avrebbe potuto volere diversamente da quella di Dio, e riescire? Se invece voi dite: per grazia di Dio e volontà della nazione, non vi è più panteismo, contraddizione od assurdo; così voi ricordate la volontà di Dio nel suo vero modo d’agire. La volontà di Dio agisce permettendo, non imperando; posciachè, se la volontà di Dio agisse imperativamente, più non vi sarebbe libertà nell’uomo, più non vi sarebbe libero arbitrio, più non vi sarebbe nè merito, nè colpa.

E dacché l’onorevole Petruccelli citava Fichte ed Hegel per dimostrarci che il concetto della Divinità non si concilia con quella della umana libertà, io gli posso citare Dante, il quale, nel canto XVI, se non erro, del Purgatorio dà una così bella e luminosa dimostrazione del come la volontà libera dell’uomo si concilii colla grazia di Dio.


Voi, che vivete, ogni cagion recate
Pur suso al Ciel così, come se tutto
Movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto
Libero arbitrio, e non fora giustizia
Per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo cielo i vostri movimenti inizia:
Non dico tutti; ma, posto ch’io ’l dica,
Lume v’è dato a bene ed a malizia,

E libero voler, che, se affatica
Nelle prime battaglie col Ciel, dura,
Per vincer tutto, se ben ti notrica...

Valga il pensiero del gran poeta a risolvere i dubbi che ancora fossero nell’animo dell’onorevole Petruccelli, il quale certamente, al pari di me, ha fede nel genio e nel patriottismo di Dante Alighieri.

Vengo alla seconda questione. Ci si propone che quind’innanzi il Re Vittorio Emanuele si chiami primo, per affermare innanzi al mondo il fatto nuovo del regno d’Italia. Questo fatto, o signori, è già affermato in gran parte, ed in ciò che manca tuttavia, io mi lusingo che sapremo in breve affermarlo assai meglio che non coll’iscrizione di una formola in fronte alle nostre leggi, formola che sarà nota a quei soli che dovranno venire sfogliando il bollettino degli atti del Governo.

Ben altri modi dobbiamo tenere per affermare il regno d’Italia. L’affermeremo anzitutto costituendolo forte quale può esserlo solamente mercè la nostra concordia; lo affermeremo, allorché questa concordia ci abbia fatti abbastanza forti, rivendicando a lui ciò che ancora gli manca, rivendicandogli quel capo e quelle membra, che ancora ne sono divise. Il regno d’Italia lo affermeremo rinnovando, se Dio ci aiuti, quegli influssi di civiltà che due volte fecero la nostra patria maestra al mondo. E il regno d’Italia, affermato a questo modo, non potrà più essere ignorato o disconosciuto, sia che la formola dica Vittorio Emanuele I o Vittorio Emanuele II; potremo dire di esso ciò che Bonaparte diceva della repubblica francese: essere omai fatta simile al sole; cosicché i ciechi unicamente possono negare di vederla.

Ma taluni, fra coloro i quali vorrebbero mutata l’indicazione cronologica, accennarono a più grave motivo di farlo. Essi credono che incomincia un nuovo ordine di cose: novus iam rerum incipit ordo. Ed a nuovo ordine di cose vogliono battesimo nuovo.

Rispetto anche quest’opinione, ma dico francamente che non è la mia. Credo invece che il regno d’Italia non è un fatto nuovo, salvo che nella sua forma estrinseca; credo che il fatto della costituzione del regno d’Italia non è che il complemento d’una tradizione preordinata da secoli, d’una tradizione che si è manifestata in un numero infinito di atti da otto secoli in poi.

L’Italia ha in sè tutti gli elementi costitutivi della nazionalità; ma l’Italia non può essere nazione senza essere una; ve lo diceva un momento fa l’onorevole Miceli, che proclamava la necessità di dichiarare l’Italia una ed indivisibile. E l’Italia non potrà essere mai una salvochè colla forma monarchica; tant’è che i fautori dell’idea repubblicana immaginarono sempre un’Italia federale. Dunque l’Italia che ebbe sin dall’origine gli elementi della nazionalità, l’Italia è preordinata ad essere costituita in regno. Questa tendenza si è del continuo manifestata nella storia.

Non appena la nostra Dinastia, da un felice maritaggio trovasi aperto il passo delle Alpi, si produce irresistibile in essa la tendenza ad allargarsi in Italia.

Si direbbe che questa Dinastia, la quale porta nel suo scudo l’aquila, ricordasse come la prima aquila, che il mondo imparò ad onorare e temere, avesse spiccato il volo dal Campidoglio, e ne traesse la conclusione che sul Campidoglio dovea, nel corso dei secoli, posare nuovamente il volo di quell’aquila.

La Dinastia Sabauda ha giurisdizioni, ha feudi, ha dominii al di là delle Alpi nella Borgogna, nella Svizzera. Or bene, ella si affretta a cederli per procacciarsi in loro vece qualche maggiore autorità in Italia, e le sembrerà sempre di aver fatto un grande acquisto quando, in cambio di opulente città e di territorii che possedesse oltr’Alpe, riceva qualche piccola terra, qualche castello o qualche borgo al di qua delle Alpi.