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UN PO' DI MAROCCO


Ecco qui. Anch'io ho le mie brave sensazioni del Marocco. Naturalmente non hanno, nè per la sostanza, nè per la forma, nulla a che fare con quelle — infilate come altrettante perle — dall'illustre amico Edmondo De Amicis, in quel mirabile laccio d'oro, che è il suo Marocco. Ma non per questo le mie modestissime impressioni, sono proprio, roba da buttar via!

Niente affatto! E mica perchè esse abbiamo delle velleità artistico-letterarie- Che! Manco sospettarlo. Solamente che questo mio “po' di Marocco„ se è sprovvisto assolutamente di tutta la luminosa, e smagliante obbiettività prospettica — frutto delle fauste nozze estetico-letterarie della penna dello squisito maestro — col pennello radiante dello indimenticabile Stefano Ussi — sotto gli auspici ufficiali della prima missione reale italiane, mandata da Vittorio Emanuele II, latrice de' suoi doni, a Mulaï Hassan, allora sultano, sino dal 1873, del Magreb-el-aska — e padre dell'attuale ventottenne imperatore, Mulaï Abd-el-Aziz — oggi questo mio po' di Marocco — ripeto — ha almeno, ed autentica — la caratteristica d'essere esclusivamente soggettivo. ne esula pertanto ogni e qualunque pretesa di quadretto suggestivo. Si tratta, appena, di qualche reminiscenza, per letture fatte, e per cose o uomini, venduti e sentiti. Di qualche reminiscenza — individuale — d'altri tempi, ormai antichi — ed incorniciarla dalla serie di poche considerazioni d'indole politica, che, oggi, forse stanno per subire chi sa mai quale trasformazione — nel convegno internazionale di Algesiras....

Intanto vi dirò che la mia “conoscenza personale col Marocco„ risale nientedimeno che ai ricordi della puerizia. Non ridete, perchè questa è la verità. Io, verso il 1859, dodicenne convinto nel Real Collegio Maria Luigia di Parma, m'era presa una maledetta cotta a favore della “guerra santa„ che la Spagna combatteva contro Sidi-Mohammed, il sultano Marocchino di quei dì. Allora io aveva la testa ancora piena delle Crociate. I miei bravi maestri, i Barnabiti — tenevano — si capisce — ardentemente — per la fortuna delle armi di Castiglia la Cattolica. E siccome anche l'entusiasmo, quando non è sporadico, è contagioso — così avvenne che anch'io, mi dichiarai apertamente nemico di quel povero Sid-Mohammed — che al postutto, non mi aveva fatto niente di male! Mi alleai strettamente alla Spagna, che — l'ingrata! — nemmeno poi, me ne ringraziò. E non sapendo far di più o di meglio, mandai a memoria e declamai, da mattina a sera, le strofe dell'inno di guerra spagnuolo, che cominciava col tonitruante decasillabo:

«Por su Dios, y su patria, y sus reyes»

e finiva colla non meno roboante quartina, attorta folgore poetica sulla cervice infedele dei saraceni, già dalle contabre alabarde, disfatti, la bellezza d'un migliaio d'anni fa — così:

«Isabel y Fernando los vieron
«Socombir para siempre en Granada:
«Y ondear nuestra insegna sagrada
«Sobre el fero pendon de l'Islam!

Versi — senza dubbio — esplodenti — codesti, ma i quali non impediranno che, dopo quella non felice guerra, gli spagnuoli accettassero la pace di Tetuan, che non costituì certamente per essi, il desiderato trionfo.

Ed io — il loro incognito alleato! — finii, a quella pace — col rimanerci molto male. E cedetti gratis a' miei buoni professori Barnabiti — tutto il residuo stock delle mie azioni sul Marocco non conquistato dall'armi cristiana. E smisi lo studio della grammatica spagnuola....

E del Marocco non mi curai più, se non quando i miei dodici anni erano diventati più di trenta: ed io nel settembre del 1876, giornalista milanese, dirigeva la cronaca cittadina della radicale-legalitaria Ragione. Prprio in quell'anno ed in quel mese, passò per Milano, una splendida ambasciata marocchina. Un gruppo d'uomini magnifici per maestosa bellezza, cui davano jerastico risalto le lunghe candidissime cappe ed i turbandi in mussola, fiammeggianti di gemme. Quei tipi stupendi — di Tetuan, di Fez e di Tangeri — dichiararono subito che di tutte le meraviglie di Milano, quella che maggiormente avevali colpiti, era stata la rappresentazione, loro offerta dal corpo di di ballo delle allieve della Scala, inauguranti la Scuola dell'Accademia. Il trasporto.... coreografico dei Marocchini — non ebbe poi più limiti, quando, la sera appresso — l'ambasciata di quelli africani, assistette al ballo I due soci, che davasi nel teatro Dal Verme. Ed il capo della missione, Mohammed-Hagy, dopo aver regalate di ninnoli preziosi quelle seducenti fanciulle — onor di Tersicore! — si sprofondò in ringraziamenti infiniti, al carissimo amico mio dott. comm. Stefano Labus — il quale, come assessore delegato, faceva, maestosamente, gli onori di casa agli ospiti mauritani. E Mohammed-Hagy, con tutta serietà, ringraziò lui ed i suoi colleghi della Giunta, per la cortesia d'aver condisceso “che le loro mogli danzassero pubblicamente in omaggio dei messi imperiali„. Ed invano l'ottimo Labus, tentò, con ogni mezzo, trarli in inganno, spiegando agli africani che nè lui, nè i suoi colleghi della Giunta comunale, nè il Sindaco — l'eccellente conte Belinzaghi — avevan nulla di domesticità o di vincoli coniugali con quelle ballerine: che in Italia si è appena monogami, ed è già troppo! e che infine nei dispositivi della Legge provinciale e comunale italiana, non ve n'ha uno solo il quale faccia dell'harem e del serraglio — una istituzione municipale.

Ma, tant'è. Quei marocchini non vollero aggiustar fede a quelle formali rettifiche. E Mohammed-Hagy, con un sorrisetto furbesco, lasciò capire che egli apprezzava assai le negative del comm. Labus, inspirate ad un colmo di delicatezza: e che anzi gliene era grato: ma che però, reduce a Tangeri, sarebesi fatto un preciso dovere di partecipare a suo augusto sovrano Mulaï-Hassan, non solo l'accoglienza affettuosamente splendida, ricevuta dalla municipalità di Milano, ma altresì la suprema e fine riservatezza nelle forme d'omaggio domestico....

É qui che finisce la mia occhiata retrospettica ed affatto soggettiva sul paese che da millecento e più anni si regge in monarchia assoluta, alla opposta sponda del Mediterraneo. Del paese, con otto milioni e più di abitanti, disseminati su quattrocentoquarantamila chilometri quadrati, con Fez capitale: e a Tangeri, Mogador, Maragan, Safì, città principali. Del paese, obbediente dal 1576 agli Sceriffi di Tafilelt: dal 1669, alla dinastia deli Alidi: e dal 1822 agli Alidi-Hasciam. Del paese, passato per la prova del fuoco delle guerre contro le nazioni europee o poco o tanto, smanianti tutte — la Francia alla testa — di stabilire la loro supremazia commerciale, politica e finanziaria sul berbero impero. Questo è. Il Maghreb ed il Tuan, la costa ed il monte, la steppa e il deserto, acuiscono, da secoli, le comburenti bramosie occidentali. La poesia araba è ancora onnipotente su questo decrepito mondo europeo, e ne galvanizza i nervi rilassati. Ed oggi — malamente e brusca-