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Dolci signore che dileguate rapide nella nebbia, avvolte le bianche membra in esotiche pellicce; bimbi che seguite il passo familiare affrettandovi nella via fangosa timidi del fosco velo che avvolge tutte le cose; e voi tutti che le cure della vita irrequieta sospingono a mete diverse, nel tumulto della città febbrile, sentiste, pur tra il gelido soffio del rovaio, i primi aliti della imminente primavera, i primi timidi tepori del sole che pur s'apriva a fatica un varco fra i densi vapori? La neve, la bianca aspettata, è ancora su i tetti delle case e delle chiede, brilla ancora qui e là tra le piante, su le zolle addormentate dei giardini sfioriti; e le piante, come in atto di preghiera, protendono ancora le braccia nude al cielo, chiamando il sole, il calore, e le loro foglie e i loro fiori olezzanti, e i loro buoni frutti d'oro. Eppure quel primo palpito della prima primavera voi l'avete inteso, e un piccolo brivido di piacere vi ha ricercato le intime fibre; e sotto quella neve avete veduto — o vi parve — crescere i tenui calami dell'erbe e delle messi future, e in quelle piante avete ascoltato il brusio sottile delle linfe salienti a nutrire le gemme nascoste che attendono il primo raggio tepido di sole per sbucar fuori dai cortici rugosi, per sbocciare, più tardi, in tutto lo splendore dei loro petali variopinti.

La terra, la gran Madre di tutto, dorme ancora; ma il sonno suo non è più grave come nel passato gennaio, come nel dicembre nebuloso; è il sonno che precede il risveglio giocondo, e lo rallegrano i sogni più belli e più sorridenti, i sogni del prossimo trionfo di colori di luce di fecondità di letizia primaverile. E come ella è l'eterna immutabile moderatrice dei nostri atti e delle nostre consuetudini, voi riprendete, ecco, la vita e le consuetudini che il freddo e il maltempo vi avean fatte tralasciare; e abbellite della vostra presenza, o belle signore, le vie e le piazze; riempite della vostra garrula gioia, o bimbi chiassosi, i passeggi e i giardini, nell'attesa della primavera che vi ridoni tutta la gaiezza, dell'estate che vi porti sui monti e lungo le riviere a folleggiare su l'erbe alte dietro le fuggitive farfalle, a confondere il vostro vocio col brusio diffuso ed immenso delle cose palpitanti nel sole.

Pure una cosa mancherà a voi, che a noi fanciulletti (quanti anni son già passati?) allietò gli occhi estatici e le anime stupite; che ci riempiva gli orecchi di uno strano rombo confuso, di fragori innumerabili, del dissueto vocio di una folla multanime; che sospendeva per un attimo i negozi e le cure della vita; che ci faceva

vivere obliando
almeno un'ora, fuor della tempesta
che ci affatica

che ci lasciava storditi e intontiti, sì, ma con più gagliarda lena e per le opere future: il Carnevale! Voi non lo ricordate, o bimbi che nasceste da noi; voi forse, un giorno, riderete di noi e dei nostri padri e dei nostri nonni per i quali quella festa era apportatrice di tanta gioia e di tanta follia; voi, forse, le cure della triste vita e le faccende e gli studi travolgeranno più di noi, senza posa alcuna, nel loro turbine affannoso; ma lasciate che la ricordiamo noi, quella festa; e se udendoci parlarne vedrete sul nostro ciglio, che già tanto vide, tremolare una lacrima di tristezza e di rimpianto, oh non sorridete, figlioli, ma lasciateci ricordare dolcemente, così, quello che fu gioia dei nostri teneri anni, quello che fu letizia della nostra giovinezza. Se togliete a quelli che han già molto vissuto la consolazione del ricordare, non farete troppo buia e troppo triste ad essi la vita?

Lasciare ricordare! Era così bello, un tempo, quell'accorrere di tutti, come un sol uomo, nel cuore della città tumultuosa che si fermava per un attimo con tutte le sue macchine, con tutte le sue febbri, con tutto il suo ansito d'opere e di battaglie; e quel passare di fantastici carri pavesati di drappi e d'ori posticci; e quel frastuono di trombette di corni di fischi di grida di risate di urli di canti; e quel polverio denso e bianchissimo di coriandoli che uomini incappucciati di stranissime vesti e di maschere gettavano a sacca su la folla, urlante e plaudente sotto la grandine fitta e ammaccatrice; e tutto quel bailamme sonoro e inquieto, quell'ondeggiar della folla sospinta da urti e da correnti nuove di fronte di fianco alle spalle, quella gioia folle e spensierata di migliaia di uomini d'ogni età e d'ogni censo che dimenticavano come per incantagione i loro affanni e le loro cure, e insieme tutti si univano e si confondevano in un solo grido multanime!

Lasciateci ricordare! Non follia stolta e dissennata, ma riposo gaio e ristoratore era quella; e gli uomini che tumultuavano così, che così ridevano e gioivano per quell'ora, ritornavano, quando l'ora era trascorsa, alle severe opere e al duro travaglio quotidiano, ed erano in esso assidui e solleciti come ilari e gioiosi nella fugace follia, e produssero frutti maturi e buoni d'opere e di ricchezza. Non sorridete, o figlioli; ma considerate come quella festa da altro non fosse inspirata che dal desiderio intenso di ritrovarsi tutti insieme in una fratellanza gioiosa di prender vendetta del cattivo destino e della insensata nostra civiltà moderna che ci vuole tanto vicini gli uni agli altri, s, ma gli uni dagli altri così lontani con l'anima e con il cuore; di rivivere, al meno in piccolissima parte, il costume degli evi lontani dei quali noi qui andiamo ricordando il fraterno spirito di gioia.

Aperti i vasi del vico, il popolo greco, per il quale il sentimento religioso era elemento integrale di vita, non avrebbe potuto dimenticare il dio che del vino era adorato inventore e protettore: Diònyso; ed era infatti alle feste in suo onore dedicato il periodo che corrisponde al nostro febbraio, la seconda metà, ciò è, dell'Antesterio e la prima dell'Elafebolion: la festa dei Piccoli Misteri e quella delle Grandi Dionysiache o Urbane.

I Piccoli Misteri si celebravano il 20 e il 21 Antesterion ad Agra o Agrae, sobborgo di Atene situato al di là dell'Ilisso, vicino alla fonte Calliroe, ove era un tempo di Demètra e di Persèfone. La loro origine era, secondo la leggenda, attribuita a questo: che Heracle (Ercole) essendosi presentato ad Atene per essere iniziato ai Misteri


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