Pagina:Ariosto, Ludovico – Orlando furioso, Vol. I, 1928 – BEIC 1737380.djvu/238

232 canto


36
     E come quel ch’avea il pensier ben fermo
di quanto volea far, si mosse ratto;
e perché alla donzella essere schermo,
e la fera assalir potesse a un tratto,
entrò fra l’orca e lei col palischermo,
nel fodero lasciando il brando piatto:
l’áncora con la gomona in man prese;
poi con gran cor l’orribil mostro attese.

37
     Tosto che l’orca s’accostò, e scoperse
nel schifo Orlando con poco intervallo,
per ingiottirlo tanta bocca aperse,
ch’entrato un uomo vi saria a cavallo.
Si spinse Orlando inanzi, e se gl’immerse
con quella áncora in gola, e s’io non fallo,
col battello anco; e l’áncora attaccolle
e nel palato e ne la lingua molle:

38
     sí che né piú si puon calar di sopra,
né alzar di sotto le mascelle orrende.
Cosí chi ne le mine il ferro adopra,
la terra, ovunque si fa via, suspende,
che subita ruina non lo cuopra,
mentre malcauto al suo lavoro intende.
Da un amo all’altro l’áncora è tanto alta,
che non v’arriva Orlando, se non salta.

39
     Messo il puntello, e fattosi sicuro
che ’l mostro piú serrar non può la bocca,
stringe la spada, e per quel antro oscuro
di qua e di lá con tagli e punte tocca.
Come si può, poi che son dentro al muro
giunti i nimici, ben difender ròcca;
cosí difender l’orca si potea
dal paladin che ne la gola avea.