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DLXIII

AL CONTE MASSIMIANO STAMPA

Gli rinfaccia l’inadempienza delle promesse di soccorrerlo. Per esser difficile a giudicare qual sia maggior, o la laude con cui, o marchese, esalto i vostri onori o la baia con la quale vituperate le mie speranze, me lo taccio. E, tacendomelo, mi dolgo piú di me. che vi credo, che di voi, che mi burlate; perchè la mia credenza nasce da sciocchezza di natura e il vostro burlarmi procede da malizia signorile. Onde in cotal ciancia son piú degno di scusa che voi di biasimo, conciosiaché le vostre lettre, le vostre imbasciate e le vostre parole potran sempre ingannare la mia mente, la mia divozione e la mia fede. Benché bisogna dire che io meriti o che io non meriti. Se io merito, perché non darmi? se io non merito, a che fin promettermi? Veramente il titolo di «signore» è a tutti i gran maestri quel che fu il peccato di Adamo ad ogni gente, onde è necessario che la menzogna gli mova la lingua, ancorché fusser veraci. Ma tolgasi da la vostra bocca un cosi infame vizio, peroché il dinotare che le generositá passate siano sute grazie de la fortuna di voi. e non bellezze de l’animo vostro, vi reca in piú vergogna che non è quella di coloro che vivono piú che la istessa fama. Deverebbe il vostro esser senza prole, doppo lo adoptarvi per figliuoli la vita, il nome e l’anima, beneficare i virtuosi, peroché la mercé concessagli sana la persona, glorifica la memoria e salva lo spirito di chi gli consola. Conciosiaché il dare a la virtú è benedizione, limosina e cortesia. È benedizione, circa la salute, che ella augura al donatore; è limosina, in quanto a la caritá dimostratale dal donante; ed è cortesia, per la magnanimitá che appare ne l’atto di chi le porge. Ma io parlo indarno, avvenga che i monarchi del di d’oggi non fanno le opere de la liberalitá, ma pensano,