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lodato da voi che nel vedermi da voi amato; e, se ben deverei piú goder de la causa, che con qualche ragione vi move ad amarmi, che vergognare del non conrispondere a la oppenione che pur vi spinge a lodarmi, è però si potente l’ansia de la ambizion naturale, che insuperbisco di ciò che scrivete in mio onore, non altrimenti che si faccia la vanitá ne lo udirsi dir bella e l’avarizia nel sentirsi chiamar ricca. Ma, se Alessandro, che ebbe tanta copia de la lode vera, invidiò quello che finge Omero in Achille, che miracolo se l’alterezza, in cui mi ha posto ciò che di me parla il marchese del Vasto, mi fa a pena degnar meco stesso? Certamente io confesso che una servitú, risguardata da l’occhio de lo amore di colui che gli comanda, è piú cara che due libertá ; peroché non si gusta consolazione che pareggi il gaudio di quel servo che vede istimare del signor, che egli ubbedisce, la sollecita diligenzia de la sua lealtade. E ciò dimostra, doppo me, la letizia, che in messer Gianfrancesco Saracino, pompa de la splendida gioventú, hanno versata le amorevolezze de l’ultima indrizzatagli da voi, che, per rifulgere di virtú sola e di venustá unica, séte tanto spettabile quanto ammirabile. Egli, che vi osserva in tutto, e io, che vi celebro pertutto, ci siamo rallegrati insieme circa il favore fatto da la Vostra Mansuetudine a lui, che vi tien nel core, e a me, che vi ho ne le viscere. Ma, se io, che vi prèdico meglio che so, sapessi dire quel che vi si richiede, e se egli, che vi si dimostra come può, potesse fare ciò che vi si appartiene, veruno imperadore fu mai cosi accommodato da mercante né cosi cantato da virtuoso, quanto sarebbe da me cantato e da lui accommodato il singulare Alfonso d’Avolos, perpetuo benefattore di nui due e sempiterno idolo nostro.

Di Vinezia, il giorno del carnasciale [io febbraio] 1540.