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che gentile. E perciò io son prigione d’uno che è piú divino che umano; ed, essendo cosi, io mi tengo vittorioso ne la perdita. Ora in che modo mi abbiate vinto con la vertu, il dimostrano i parti gloriosi uscitivi de l’intelletto, con ammirazione del mondo; e in qual maniera io sia rimasto vinto da la cortesia che è in voi, lo sa quella commessione di proferte, che deste la state passata al capitan Nicolò da Piombino e al capitan Sandrino Filicaia, i quali mi pregarono che, scrivendovi, dicessi come vi avevano ubbidito. Certamente, io rimasi a cotale imbasciata come rimane il servo che vede fare al suo signore l’ufficio trattogli de la mente da la insolita trascuratezza. Ma io non sarei disuguale a voi, se io fussi avertito come voi; e il termine usatomi sarammi uno sprone, che per l’avenire porrá nel corso la pigrizia mia. Né crediate che subito non mi movessi a rendervi le grazie ch’io doveva per si fatta amorevolezza. Ma le lettre mie, date al conte Lodovico Rangone, il qual disse mandarle con le sue a posta in cotesta corte, si perderono; e il credermi che avessero avuto ricapito e l’aspettare l’occasione di rescrivervi mi ha intertenuto fino a l’avviso che ho avuto di non so che buone parole che ha detto l’Eccellenza del gran maestro, come sa il duca d’Atri e come sapete voi. Non nego che le promesse dei principi non sieno vivanda dei sogni di coloro che vegghiono: pure la dolcezza de lo sperare è si soave, che ognuno se ne lecca le dita. E perciò io, che ho il gusto d’uomo, mi raccomando al favore Alamanno, pregandolo che mi aiuti col benefício. E, se ben, ciò facendosi, non crescerá la benivolenza e l’osservanza mia inverso di lui, per esser giunta al sommo del ben volergli e del sempre osservarlo, l’opra, che egli fará per me, trasformará le mie opere in fantesche de la fama sua.

Di Venezia, il 8 di giugno 1537.