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quantunque non avesse che a rallegrarsi di sè e della sua coscienza.

Rimaneva le lunghe ore cogli occhi spalancati, pieni di un mite incantesimo, fissi al biancore della finestra, colle mani sotto la testa, non provando che un caldo peso sul cuore.

Non era un dolore, o lo era quel poco che basta a mantenere nel corpo una dolce eccitazione morbosa, una febbrile sofferenza non ingrata, e nella fantasia un immaginare continuo di cose diverse, remotissime dalla realtà, nelle quali la mente poteva navigare mollemente senza urtare negli scogli.

Nel suo casto rigore il pensiero non osava dare alle immagini forme e contorni troppo determinati. Non osava nemmeno rispondere alle questioni che insorgono così curiose e tumultuose durante i momenti di maggior ribellione. Le lasciava gridare, conservando un assoluto dominio sopra sè stessa. Era possibile? no: era forse una momentanea ebrezza, un’indulgenza concessa a sè stessa, in compenso del suo lungo soffrire: no, essa non poteva, non doveva lasciarsi amare da quel ragazzo. Tutto sarebbe passato, al primo rientrare nel sacro tabernacolo del dovere, non lasciando che una leggiera striscia di dolore al capo, come fa ogni gioia che passa.

A quel ragazzo non poteva non volere un po’ di bene. Anche la compassione ha i suoi doveri. Eran cresciuti un pezzo insieme, lui povero, lei disgraziata. S’eran ritrovati dopo molti anni, lui più povero, lei più disgraziata. In mezzo alla gente che aveva congiurato a’ suoi danni, anche tra quelli che le volevano più bene, egli solo aveva sentito per lei una pietà pura e disinteressata. Quel povero Ferruccio