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Anno di Cristo CCCV. Indizione VIII.
SEDE PONTIFICIA vacante.
COSTANZO imperadore 1.
GALERIO MASSIMIANO imper. 1.

Consoli

FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la quinta volta e CAIO GALERIO VALERIO MASSIMIANO CESARE per la quinta.

Restò appoggiata nell’anno presente la prefettura di Roma a Postumio Tiziano. Seguitava intanto Diocleziano Augusto il soggiorno suo in Nicomedia, sempre infermo; se non che nel dì primo di marzo fece forza a sè stesso2876, ed uscì il meglio che potè fuori del palazzo per farsi vedere al popolo, ma sì contraffatto pel male, che appena si riconosceva quel desso, e in certi tempi ancora si osservava in lui qualche alienazione di mente. Da lì a poco sopraggiunse Galieno Cesare a visitarlo, non già per seco rallegrarsi della ricuperata salute, ma per esortarlo, anzi forzarlo a rinunziare all’imperio. Già aveva egli tenuto un simile ragionamento a Massimiano Erculio imperadore, adoperando parole di gran polso, cioè minacciandolo di una guerra civile, se non deponeva in sue mani il governo. Ora egli sulle prime si studiò con buone maniere di tirare il suocero Diocleziano a’ suoi voleri, rappresentandogli l’età avanzata, l’infermità e l’inabilità a più governar popoli, e mettendogli innanzi agli occhi l’esempio di Nerva Augusto. Al che rispondeva Diocleziano, essere cosa indecente che chi era stato sul trono, si avesse a ridurre ad una vita umile e privata; e ciò anche pericoloso, per aver egli disgustato assaissime persone. Nè valere l’esempio di Nerva, perchè egli sino alla morte ritenne il suo grado. Che se pur Galerio bramava di alzarsi, tanto a lui quanto a Costanzo Cloro si conferirebbe il titolo d’Augusto. Ma Galerio, dopo aver replicato che, in far quattro imperadori, si sconcerterebbe la forma del governo introdotto dal medesimo Diocleziano, preso un tuono alto di voce, aggiunse, che s’egli non voleva cedere, sarebbe sua cura di provvedervi, perchè certo non voleva più far sì bassa figura, stanco della dura vita di quindici anni menata nell’Illirico sempre in armi contra de’ Barbari, quando altri godevano le delizie in paesi migliori e tranquilli. Diocleziano infermo, e che già avea ricevuto lettere di Massimiano coll’avviso di somiglianti minaccie a lui fatte da Galerio, e colla notizia che costui andava a questo fine sempre più ingrossando l’esercito proprio; allora colle lagrime agli occhi si diede per vinto, e restarono d’accordo tanto egli che Massimiano di deporre l’imperio. Si passò dunque a trattare dell’elezion di due Cesari. Proponeva Diocleziano che tal dignità si conferisse a Costantino figlio di Costanzo, e a Massenzio figlio di Massimiano. Amendue li rigettò l’orgoglioso Galerio, con dire che Massenzio era troppo pien di vizii, benchè genero suo; Costantino troppo pien di virtù ed amato dalle milizie; e che niun d’essi presterebbe a lui l’ubbidienza dovuta; laddove egli voleva persone che facessero a modo suo. Ma e chi si farà? disse allora Diocleziano. Rispose Galerio che promoverebbe Severo e Daia, ossia Daza, figliuolo d’una sua sorella, ed appellato poco innanzi Massimino, amendue nativi dell’Illirico. Al nome di Severo replicò Diocleziano: Quel ballerino? quell’ubbriacone, che fa di notte giorno, e di giorno notte? - Quello appunto, seguitò a dir Galerio, perchè egli sa onoratamente governar le milizie. Bisognò che Diocleziano abbassasse la testa, e si accomodasse ai voleri dell’altero suo genero. Altro dunque non restò a Diocleziano che di concertare per via di lettere con Massimiano la maniera e il giorno di rinunziare l’imperio, e di dar la porpora ai due stabiliti Cesari, benchè l’insolenza di Galerio, prima anche di parlare