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270 la divina commedia

     ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
66che se ne va di retro a’ vostri terghi».
     Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
69quando rozzo e salvatico s’inurba,
     che ciascun’ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
72lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
     «Beato te, che de le nostre marche,»
ricominciò colei che pria m’inchiese
75«per morir meglio, esperienza imbarche!
     La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che giá Cesar, triunfando,
78regina contra sé chiamar s’intese:
     però si parton ‛ Soddoma ’ gridando,
rimproverando a sé, com’hai udito,
81e aiutan l’arsura vergognando.
     Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
84seguendo come bestie l’appetito,
     in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
87che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
     Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
90tempo non è di dire, e non saprei.
     Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizelli; e giá mi purgo,
93per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
     Quali ne la tristizia di Licurgo
si fer due figli a riveder la madre,
96tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
     quand’io odo nomar se stesso il padre
mio, e de li altri miei miglior che mai
99rime d’amore usar dolci e leggiadre;