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purgatorio - canto xxiii 257

     Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltre misura,
66in fame e ’n sete qui si rifá santa.
     Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
69che si distende su per sua verdura.
     E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
72io dico pena, e dovría dir sollazzo,
     ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‛ Eli ’,
75quando ne liberò con la sua vena».
     E io a lui: «Forese, da quel dí
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
78cinqu’anni non son vòlti infino a qui.
     Se prima fu la possa in te finita
di peccar piú, che sorvenisse l’ora
81del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
     come se’ tu qua su venuto? Ancora
io ti credea trovar lá giú di sotto
84dove tempo per tempo si ristora».
     Ond’elli a me: «Sí tosto m’ha condotto
a ber lo dolce assenzio de’ martiri
87la Nella mia: con suo pianger dirotto,
     con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
90e liberato m’ha de li altri giri.
     Tanto è a Dio piú cara e piú diletta
la vedovella mia, che molto amai,
93quanto in bene operare è piú soletta;
     ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue piú è pudica
96che la Barbagia dov’io la lasciai.
     O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è giá nel cospetto,
99cui non sará quest’ora molto antica,