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rime varie 125


CXCIV.

Èmmisi chiusa alfin l’inferi porta,
Da cui proruppe strabocchevolmente
Flusso infinito di materia morta
In negro-gialla bile aspra-fetente.

Il dolce sonno, che l’alma conforta,
Già dal mio ciglio omai due lune assente,
E in van chiamato, riede, e in don mi apporta
E vita, e forza, e ardire, e carmi, e mente.

Or superbiam su via noi d’Eva prole;
Figli del ciel, chiara progenie bella,
Per cui soli si alluma e gira il Sole.

L’uom, che se stesso de’ suoi pregi abbella,
Se sgombrar vuol dal suo pensier tai fole,
Sieda un solo mesetto alla predella.

CXCV.

Chi ’l crederia pur mai, che un uom non vile,
Per amar troppo il bel natío suo nido,
Sordo apparendo di natura al grido,
Spontaneo il fugga, quasi ei l’abbia a vile?

Eppur quell’un son io: ma in cor gentile
Far penetrar l’alta ragion mi affido,
Che mi sforza a cercare in stranio lido
Come ardito adoprar libero stile.

Sacro è dover, servir la patria; e tale
(Benchè patria non è là dove io nacqui)
L’estimo io pur; nè d’altro al par mi cale.

Quindi è, che al rio poter sotto cui giacqui,
Drizzai da lungi l’Apollíneo strale,
E in mio danno a pro d’altri il ver non tacqui.