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atto terzo 31


l’eccelse mura, il ciel n’attesto, e sveli

i miei retti pensieri; altro che pace
non respirava Antonio, e pace ognora
volea serbar fra le romane genti.
Augusto, il sai, che da quel giorno infausto,
in cui Siila crudel, Mario orgoglioso,
primi fur visti ad inondar di sangue,
e di sangue Roman, Roma soggetta;
Roma dal giorno in poi non fu piú quella.
In lei giá scema la virtú primiera,
e l’attonito sguardo invan volgendo
al troppo vasto impero, alfin soggiacque
vinta lei stessa dal soverchio peso;...
io tiranno non nacqui, e l’alma in petto
mi diè natura, e generosa, e grande,
e degna infin d’un cittadin di Roma.
Ma inutil don! Che Roma piú non era.
Finché Cesare visse, a lui secondo
non disdegnai d’annoverarmi in Roma.



    scemar vedendo, al troppo vasto impero
    ella indarno volgea gli attonit’occhi;
    che al troppo grave peso era pur forza
    che soggiacesse da se stessa vinta.
    Non nasco io no tiranno; in petto un’alma
    Romana io vanto; inutil pregio, allora
    che piú Roma non è! Cesare vivo,
    non isdegnai d’esser a lui secondo
    ma il mondo intero ei debellato avea;
    e adorno il crine d’immortali allori,
    ebbe a vile il diadema. Ahi, di tant’uomo
    indegna orrida morte! inique spade
    troncaro i giorni suoi: ma almen non giacque
    inulto ei, no: di Grecia e d’Asia i campi
    il san per me, se n’irrigò la tomba
    piú sangue assai che pianto. Allor, le antiche
    mie vittorie, il mio lustro, e gli anni miei,
    tutto allor mi fea di Roma il primo;
    e allor di Ottavio esser pur volli io pari.
    L’armi poscia impugnai, quel dí ch’io vidi,
    a certa prova, che me ugual sdegnavi.