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atto terzo 187
sí gran congiura, io non sarei per tanto

perfido mai. Per l’alta causa e giusta
di un legittimo re, tentati, e volti
a pentimento e ad equitade avrei
questi sudditi suoi da error compresi,
traviati dal ver; né mai sarebbe
perfidia ciò. Ma, né usurpar mi deggio,
né vo’, l’onor di cosa che arte nulla,
né fatica, costavami. Disciolto
dianzi era appena il popolar consesso,
ch’io di nascosto ricevea l’invito
al secreto consiglio. Ivi stupore
prendea me stesso, in veder tanti, e tali,
e sí bollenti difensori unirsi
degli espulsi Tarquinj: e a gara tutti
mi promettean piú assai, ch’io chieder loro
non mi fora attentato. Il solo Sesto
chiamavan tutti alla dovuta pena.
Ed è colpevol Sesto; e irato il padre
contr’esso è piú, che nol sia Roma; e intera
ne giurava ei vendetta. Io lor fea noto
questo pensier del re: gridano allora
tutti a una voce: «A lui riporre in trono
darem la vita noi». Fu questo il grido
della miglior, della piú nobil parte
di Roma. — Or voi, ben dal mio dir scorgete,
ch’arte in me non si annida: il tutto io svelo,
per voi salvar; e per salvare a un tempo,
ov’ei pur voglia, il vostro padre istesso.
Tiberio — Poiché giá tanto sai, serbarti in Roma
stimo il miglior, fino al tornar del padre.
Veggo or perché Bruto inviò sí ratto
il comando di espellerti; ma tardo
pur mi giungea...
Tito   Ben pensi: e ognor tu intanto
sovr’esso veglia. Il piú sicuro asilo