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atto quarto 39
a un mio cenno, se l’osi. Or via: la prova

te n’offro; il piú valente abbia Romilda.
Ildov. Muori tu dunque or di mia mano...
Romil.   I brandi!...
Che fate?... Oh ciel!... Cessa, Ildovaldo; or merta
di venir teco al paragon costui?
Ildov. Ben parli. A che voll’io, caldo di sdegno,
abbassar me?
Romil.   Non che il suo brando, il guardo
puoi sostener, tu d’Ildovaldo? e s’anco
sorte iniqua pur desse a te la palma,
creder puoi tu, ch’io sarei tua? Non sai,
ch’io piú assai di me stessa amo Ildovaldo,
e che ti abborro piú ancor che non l’amo?
Ildov. Averla or debbe il piú valente in arme,
o in tradimenti? Parla.
Almac.   E che? mentr’io
mio egual ti fo; mentre a combatter teco
quanto per me tor ti potrei, son presto;
risponder osi ingiuríosi detti
a generoso invito? — A me tu pari
esser non vuoi? dunque nol sei: dunque oggi,
come il maggior suole il minore, io debbo
tua baldanza punir. Da pria per dritta,
per ogni strada io poscia al fin prefisso
venir, se a ciò mi sforzi, in cor m’ho fitto:
a niun patto Romilda a te non cedo.
Io primiero l’amai: l’oltraggio fatto
con la mia destra a lei, può sol mia destra
anco emendarlo: io vendicarla; d’ogni
suo prisco dritto, d’ogni ben perduto
io ristorarla, io ’l posso; e tu nol puoi,
né il può persona.
Romil.   È ver; tu aggiunger puoi,
a perfidia perfidia, e il puoi tu solo.
Va, traditor: non fossi altro che ingrato