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atto terzo 25
minacce usar quindi Rosmunda udrammi;

e fatti poscia. Ove dal rio proposto
ella non pieghi, io la torrò. Piú ardente
di me non hai, no, difensore: o trarre
tu in questa reggia i giorni, o perder debbo
io col regno la vita.
Romil.   Or donde tanto
generoso ver me?...
Almac.   Piú fera pena
non ebbi io mai, che l’odio tuo.
Romil.   Ma, posso
cessare io mai d’odiarti? in suon di sdegno
l’inulto padre?...
Almac.   Oh ciel! non io l’uccisi:
il trucidò Rosmunda.
Romil.   A tutti è noto,
ch’eri sforzato al tradimento orrendo
dalle minacce sue: ma pur la scelta
fra il tuo morire, o al tuo signor dar morte,
ella ti dava. È ver, dell’empia fraude
ignaro tu, contaminato avevi
giá il talamo del re; ma col tuo sangue,
col sangue in un della impudica donna,
tu lavarlo dovevi; ammenda ell’era
al tuo delitto sola: e ammenda osasti
pur farne tu con vie maggior delitto?
Morte, che altrui tu davi, a te spettava:
pur giaci ancora nel tradito letto;
suddito tu, del signor tuo la sposa,
e l’usurpato sanguinoso soglio
tieni tuttora; e di gran cor ti vanti?
e umano parli? e vuoi ch’io ’l creda? e ardisci
sperar, ch’io men ti abborra? — Atre, funeste,
tai rimembranze dalla eterna notte
del silenzio non traggansi: tacerne,
ov’io non t’oda, posso. — Oggi sottrammi