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e il monastero maggiore 53

e proteggendole sembrava forse a quegli uomini di assicurarsi molto comodamente l’impunità delle loro colpe e un posticino in paradiso.

Strana, indefinibile sensazione ci invade sotto le vôlte della chiesa del monastero. Le ginocchia non piegano e la mente non prega; siamo rapiti, distratti, affascinati da qualche cosa che non è Dio, ma forse arriva a Lui per altra via.

È la parete che divide misteriosamente la chiesa a metà, lasciandoci indovinare che là dietro tutta una turba di vergini pregava, divisa dal mondo a cui non arrivava più che il suono del loro canto? È la loggetta che gira torno torno in alto, di dove esse spiavano non vedute, forse cercando nella folla visi indimenticati? È il nome suggestivo dell’architetto che lasciò l’impronta del suo ingegno nelle belle linee eleganti e armoniose dell’edificio: Dolcebono? O è la curiosità di ritrovare nell’ombra di una cappella il ritratto di quell’impudica che lasciò la bella testa sul patibolo, la contessa di Challant?

Sì, tutto questo, ma soprattutto il fascino delle pitture che ricoprono le pareti, le vôlte, le cappelle; è la soavità e la purezza di Bernardino Luini, lo squisito e umile artista che passò di chiesa in chiesa, di convento in convento, forse