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132 Adolfo Albertazzi


IV.

Quando entrarono e salirono al terzo ordine, già i primi gradi, dei patrizi, e i secondi, dei cavalieri, erano pieni; lassù trovarono liberi appena due posti attigui. Cesario Prisco li lasciò ai figliuoli, e rimase in piedi a capo della scalinata, di dove poteva meglio scommettere cogli amici. Lucilio, timido, a bassa voce indicava intanto al fratellino la tribuna imperiale, vuota, il seggio dei giudici, le tre mete dalla parte delle scuderie e le tre mete opposte con la porta trionfale, nella spina, i segnacoli con i delfini e le uova che servivano a numerare i giri della corsa.

Nè l’attesa fu lunga. Un silenzio immenso, improvviso.

Ecco: aperte le scuderie: ecco i carri. Avanzano sino al principio della spina; si allineano; ristanno davanti a una corda... Un istante. E a Valentino tremò il piccolo cuore; ebbe paura, non sapendo di che; cercò cogli occhi il padre. Ma Lucilio lo tirò per la veste e gli sussurrò: — Guarda!

Una mano agita una benda purpurea, la corda cade: via!

Nel galoppo molteplice si vedevan di pari le teste dei cavalli, le fruste alzate e i colori delle tuniche. E cominciarono le scommesse e il richiamo a tutti noto: — Libanio! Libanio! — Libanio non