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la fortuna di un uomo 147

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Era, quel brutto giorno, una bella domenica alla metà di marzo, al tempo che già ferve per tutto un senso di vita nuova. Solo Gaspare Bicci non se n’accorgeva: andava per la strada affollata, solo, raccolto in sè; quasi sotto un peso opprimente; e dopo aver pensato agli uffici di pietà che gli restavano da compiere e alle forme di lutto da osservare, ripensava al mistero della morte.

Riflettè: «Dovendo morir tutti, ed essendo necessario, per morir volentieri, aver sofferto molto, ecco che anche il soffrire diventa un benefizio. Ma si è sempre a tempo.»

Eppure, lui soffriva; si sentiva stanco, stanco anche nelle gambe. Ah zio, zio! perchè morire? così buono!... Quand’ecco, a scorgere una carrozza che passava vuota, egli fe’ un cenno al fiaccheraio e salì.

— Dove vuoi; per un’ora.

Indi riprese i tristi pensieri. Ma perchè lo zio Giorgio aveva patito assai? Oltre che la passione d’amore, a cui serviva di richiamo il tavolino delle esperienze spiritiche, quali altri guai aveva avuto quel nobile cuore?

A queste dimande risponderebbe forse qualche carta lasciata, per memoria, nello scrittoio; insieme col testamento.