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il caso mio mi paja quel del cavallo d’Ibico. Era un corridor destro, ormai vecchio; e in quello di entrar nel certame dei cocchi, stavane in paura, per l’isperienza. Il poeta se gli paragona, e dice che ancor egli di mala voglia, sì vecchio, è isforzato di tornare all’amore. Or somigliantemente io isbigottisco, venendomi a mente ch’essendo sì innanzi in età, abbia a discorrere tanta moltitudine di questioni, e siffatte. Ma io piego il collo, da poi che pure vuole Zenone, e siamo soli. D’onde adunque cominceremo? e che supporremo imprima? O volete, dappoi che s’ha a fare a un gioco faticoso, ch’io cominci di me e della mia ipotesi sovra l’uno; esaminando laddove quello sia, e laddove non, ciò che segua? Vogliamo, rispose Zenone. E Parmenide. Via, chi mi risponde? non il giovanissimo? perocchè non sarà vago di dimandare, parlerà come sente: e infrattanto ch’egli risponde, io piglierò un po’ di fiato. Eccomiti, o Parmenide, gli disse Aristotile: chè tu di me intendi, dicendo il giovinissimo: via domanda tu, ch’io ti rispondo.

Ei cominciò: È egli vero che se l’uno è, non è molti? E come potrebb’essere? Pertanto, necessario è nè abbia parti, nè sia tutto. Perchè? La parte, è parte d’un tutto. Sì. E il tutto, non è quello, al quale non manca parte? Certo. Onde, in ambedue i modi, l’uno costerebbe di parti: e, essendo tutto, e, avendo parti. Necessariamente. Per ciò, in ambedue i modi, l’uno sarebbe molti, ma non uno. Egli è il vero. L’uno dipoi non deve esser molti, ma uno. Sì. Se pertanto l’uno è uno,