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238 Capitolo dodicesimo.

Verso le dieci ci fermiamo presso poca acqua putrida, verde quale smeraldo, conservata in una infossatura del letto del torrente. Le montagne si vanno facendo sempre più basse e aride, coperte da piante delle quali letteralmente non restano che i tronchi, e il suolo sparso d’erba gialla che con un fiammifero si potrebbe tutta incendiare. C’è nelle tinte del paesaggio la vera impronta della siccità, della flora bruciata. Lasciate passare le ore del gran sole, ci rimettiamo in strada un paio d’ore prima del tramonto: le nostre mule sono sfinite dalla fatica continua e dalla mancanza di cibo, per cui è forza aiutarle meglio che cavalcarle: il caldo si fa sempre più soffocante, terminano le alture e subentra un vasto piano inclinato fesso di quando in quando da larghissimi letti da torrente. Molti ne attraversiamo, e sempre ci dicono dobbiamo scorgere il mare, ma mai non vi si arriva: il sonno e la stanchezza resi ancor maggiori dall’afa terribile ci ammazzano, ma vogliamo giungere alla meta. Nei letti dei fiumi troviamo scavati dei pozzi dai quali si ha acqua fangosa e salmastra, ma che l’arsura ci fa bere, vincendone la ripugnanza. Finalmente fra le due e le tre di notte battiamo alla porta di un greco che in Omkullo tiene una piccola bottega d’acquavite. Ci rifocilliamo, riposiamo qualche ora, poi ripartiamo per Massaua, dove ritroviamo tutti i nostri buoni amici e la cattiva notizia che il vapore è partito il giorno prima.

Eccoci dunque per due settimane condannati ancora a questo soggiorno.

Non dico della festa che abbiamo dal bravo Habib Sciavi e dagli altri amici che avevamo lasciati in questo paese: è una gara per vederci, felicitarci del nostro viaggio, che davvero conteremo per sempre fra le migliori nostre soddisfazioni.

Come vita Massaua ci pare un paradiso dopo l’Abissinia, pure subito si rimpiange la vita delle emozioni, la vita variata della carovana.