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o( XXXV )o

Che l’opre stesse amministrando il sonno
Del suo maggior Fratel, morti ne renda
Anche al dolore. Onde le meste avendo
Palpebre spesso cariche di sonno
Dormone allor che piangono le Donne.
Così a la stessa Ermione ingannata
Da l’industria de’ sogni, allor parca
La Madre di mirar. Perciò stordita
Così parlò, non ben placata in tutto.
Feri fuggita sei fuor de le stanze
Da me, che or piango, e abbandonata m’hai;
Mentre dormiva entro i paterni letti.
Deh qual monte io lasciai, che non cercassi,
Ovver quai colli? Così dunque andavi
Fra i legami di Venere leggiadra?
Rispose a lei di Tindaro la Prole:
Non mi sgridar, benchè dolente sei,
O Figlia mia, perchè tai cose io soffra.
Oh Dio! quell’uomo ingannator, che ieri
Quà venne mi rapi. Tanto rispose,
E la Figlia levossi, e non vedendo
La Madre, alzò più acuta voce e disse:
O voi uccelli de l’aerea stirpe
“Alati figlj, a Menelao narrate
Tornando in Creta, che venuto ieri
A Sparta un traditor, de le mie Case
Tutto, oimè lo splendor seco portossi.
Così con molte lagrime la Figlia,
Gittando a l’aria le querele, e i detti,
Cercava in van la Genitrice amata.