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o( XVII )o

Snudando a l’aria la pieghevol veste
Il seno alzò, nè già rossor la prese;
E de gli Amori il cingolo slacciando
Dolce qual mel, tutto snudossi il petto,
Nè le poppe obbliò. Quindi ridendo
In simil guisa al Pastorel parlava.
     Prendi, e in obblio manda le guerre, prendi
La beltà nostra, e non curar gli scettri,
Nè la terra de l’Asia. Io de la guerra
L’opre non so: Poichè qual uopo ha mai
Venere de gli scudi? Hanno assai pregio
Ne lo splendor de la beltà le Donne
Più, che ne l’armi. De la forza in vece
Io ben darotti un amorosa moglie,
E in vece de l’impero, ai letti sopra
Andrai d’Elena bella. In guisa tale
Sposo ti mirerà Sparta con Troja.
     Finito di parlar non ebbe ancora,
Ch’ei lo splendido pomo a Vener diede,
Dono de la Beltà, gran Ben ma insieme
D’una gran guerra origine, e semente.
E Venere tenendo in man quel pomo
Alzò la voce, ed a schernir Giunone
Prese, e con essa Pallade guerriera.
     Compagne ne la gara a me sedete,
Cedete la vittoria: Io la Bellezza
Ho amato, e la Bellezza or m’accompagna.
Dicon pure, o Giunon madre di Marte,
Che de le Grazie che han la bella chioma,
Con doglie hai partorito il sacre coro.
Com’è, ch’oggi da tutte abbandonata