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atto quinto 411

          Fazio. Ve’ con che faccia anco rimprovera
          e’ servigi! Assassino! ladro publico!
          Giulio. V vi dirò il vero, Fazio: io dubito
          che vo’ non siate in voi. Che cose ditemi?
          Fazio. I’ sono stato in me d’avanzo. Bastati?
          Pazzo era io quando di te fidavomi.
          Ma non è ben che ’n parole multiplichi
          con esso teco. Fa’ che mai piú capiti
          dove io sia. E sia per sempre dettoti.
          Giulio.Dunque, mi date una buona licenzia?
          Fazio. Tu m’ha’ inteso.
          Giulio.Sta bene. Ed io pigliola;
          che so che non mi mancherá ricapito.
          Ma mi duol ben di non saper la causa.
          Fazio. Non piú.
          Giulio.E non piú sia.
          Fazio. Bernardo, mozzisi
          qui. Va’; fa’ e’ fatti tuoi. Piú non si stuzzichi
          questo fastidio ch’abastanza amorbaci.
          Giulio.De’ danar vostri che s’ha a fare?
          Fazio. Lasciane
          la cura a me. Non pigliar tanti carichi
          né tant’impacci; che, com’ho saputoli
          ritrovar, cosí ancor guardar sapròmmeli.
          Giulio.Dunque, eran persi?
          Fazio. Orsú! non piú! Levatimi
          dinanzi, che oramai tu m’hai fracido.
          Giulio.I’ me n’andrò, io.
          Fazio. Va’, che mai piú tornici.
          Tu l’ara’ a far con altri. Ora bastami
          aver il mio. Vogl’ir a far quell’opera
          che ho disegnata; e non vo’ qui combattere
          con questo tristo. So che gli ara a essere
          agli Otto; e quivi vo’ che si giustifichi.
          Giulio. Io non so se costui s’è pazzo o se si
          ha beuto troppo o gli umor malenconici