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ATTO IV

SCENA I

Erminio e Cesare.

Erminio. Dove diavolo stavi tu ch’ei non ti vedde?

Cesare. In fuogo ch’io vedevo lui benissimo ed egli non vedeva me. E guardossi attorno piú di cento volte!

Erminio. Oh! oh! oh! che bella festa!

Cesare. Bellissima, per me.

Erminio. Cert’è che tu hai avut’una gran ventura: non perché tu abbi guadagnati e’ dumila ducati; che, quando fussi in tuo arbitrio, non credo li volessi, sapendo el padrone d’essi. E, benché oggidí non s’usi rendere, non solo quelli che si trovono, ma ancora quelli che si accattono, pur so che tu vorrai fare piú presto l’offizio de l’uomo da bene che l’usanza. Ma dico bene che ei non ti potea accadere cosa piú opportuna al farti conseguire el tuo desiderio.

Cesare. Io la discorro bene per cotesto verso.

Erminio. Imperò bisogna che noi vadia dicendo: perché, se lui risapessi che tu avessi e’ danari, non si quieterebbe insin a tanto che non gli avessi nelle mani; dove, non lo sapendo, sará piú facile il condurlo a fare quanto desideri.

Cesare. Ei non lo sa altri che tu, Marcantonio e Lucido. Però avvertiscigli che non ne parlino.

Erminio. Lo farò. Ed ecco appunto di qua mio padre. Lasciaci, di grazia, essere un poco soli.

Cesare. Cosí farò. Intanto andrò a rivtder quei danari che non son riposti a mio modo. Addio.