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atto secondo 147

Erminio. Che diavol vuoi tu far, Lucido?

Lucido. Il vedrete. Ma è meglio che intanto andiate a ragguagliar d’ogni cosa Marcantonio acciò che, bisognandoci pur l’opera sua, la possiamo adoperare. Ed ecco appunto di qua Aridosio. Guardate che non vi vegga intorno al suo uscio. Ed io ancora mi vo’ tirar qua drieto.

Erminio. Addio, adunque.

Cesare. Per Dio, ecco Aridosio. Che cosa ha esser questa? Io son disposto di starci insino al fine; ma in luogo che non mi vegga.

SCENA IV

Aridosio, Cesare, Lucido.

Aridosio. Dove diavol troverrò io questo sciagurato? Io credo che sará ito in chiasso, con riverenzía parlando. Oh povero Aridosio! Guarda per chi tu t’affatichi, a chi tu cerchi lassar tanta roba! A uno che ti tradisca ogni di e ad ogni ora ti dia nuove brighe e che desideri piú la morte tua che la propria vita.

Cesare. E’ ci è degli altri che desiderano questo medesimo.

Aridosio. Ma io me la porterò prima meco alla fossa che lasciargnene. Meschino a me! che, questa mattina, ho pensato di crepare affatto tra la fatica del venire a pie, che mi ha mezzo morto, e il dispiacer dell’animo. Dubito di non m’ammalare. E tutto per causa di quel... presso che io non dissi. Ma che indugio io a entrar in casa, e posare la borsa che troppo mi pesa, e poi darmi alla cerca tanto ch’io Io truovi per gastigarlo secondo che merita? Ma voglio aprir l’uscio.

Cesare. Per Dio, ch’egli ha la borsa seco.

Aridosio. Oimè! Che vuol dir questo? Sarebbe egli mai guasto el serrarne? A voltar in qua, peggio. E’ par che sia messo ei chiavistello di drente Io so pur che Tiberio non ha la chiave; ma temo piú presto che non ci sia entrato qualche ladro. Bisogna, un tratto, che qua sieno brigate.

Lucido. Chi è quel matto che tocca quella porta?

Aridosio. Perché son io matto a toccar le cose mia?